• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

Home page > Tempo Libero > Fame&Tulipani > Panem, Vinum et Circenses. Usi e costumi nell’antica Roma

Panem, Vinum et Circenses. Usi e costumi nell’antica Roma

I Romani attribuivano molta importanza alla vita familiare ed intima, il culto dell’amicizia ed i ricevimenti nella loro casa, ma gradivano anche mescolarsi alla folla nelle strade, nelle piazze e nei luoghi di spettacolo, cogliendo così un’ulteriore occasione per dissetarsi con la loro bevanda preferita: il vino.

Se il consumo che ne potevano fare nelle loro case era modesto, non era così allargandolo alla città intera, per la possibilità che si aveva di berlo in ogni ora ed in ogni luogo.

Per coprire il fabbisogno di un così vasto mercato, battelli carichi di botti e di anfore provenienti dalle isole dell’Egeo, da Cipro, dalla Grecia, dalle Baleari e dall’Asia Minore, si affollavano e transitavano nel porto di Ostia; mentre i vini della Gallia e del Reno sostavano a Civitavecchia facendo arrivare su questi lidi ben ottanta marche di vini prelibati, di cui i due terzi erano italici. Sbarcati dalle navi “onerarie” nelle cui stive i recipienti erano adagiati su letti di sabbia, i vini venivano caricati su barconi a fondo pianeggiante, che risalivano il fiume Tevere, talvolta trainati da buoi o da cavalli che li conducevano in depositi chiamati “Portus vinarius”, dove le anfore contenenti vino venivano conservate in depositi chiamati “horrea vinaria” alla sinistra del fiume ai piedi dell’Aventino.

In tale grande attività che talvolta rischiava il marasma, le anfore venivano riconosciute dalle etichette, cioè da un’iscrizione in legno o terracotta fatta a pennello sul corpo dell’anfora; per i vini di poco pregio bastava un segno, come si fa anche oggi con il gesso. Per indicarne la data si scriveva il nome dei consoli in carica nell’anno. Poco distante, ai piedi del monte Testaccio (da testa: piccolo coccio), formatosi nei secoli per l’innalzamento dovuto ai cocci delle anfore che si rompevano durante lo scarico, c’ era per l’appunto Il Forum vinarium, centro di contrattazioni tra mercanti ed acquirenti, Plinio ci ricorda circa 195 qualità dei vini. (di cui 12 prestigiosi), e le principali gradazioni di colori che proponeva il mercato: albus (bianco), fulvus (giallo oro), sanguineus (rosso rubino), niger o ater (nero).

Ma erano conosciuti anche il purpureus (violaceo), il medium (grigio) e l’helveolum(roseo).

Il commercio del vino assunse così tanta importanza nella Roma dell’Impero, che fu necessario raggruppare tutti i suoi esponenti, in un unico organismo che prese il nome di Corpus vinariorium (corporazione dei vinai), peraltro molto importante, perché riconosciuto tra i sei maggiori dei circa settantacinque del periodo classico.

La via Biberatica, nei Mercati Traianei, fu testimone dell’importanza commerciale del vino: nelle sue sovrapposte tabernae, è stato possibile riconoscerne il percorso ancora funzionante nel Medioevo, per la struttura di “botteghe a vino” con celle vinarie.

L’immensa quantità di vino che sbarcava nei porti del tirreno e confluiva a Roma, veniva venduta in innumerevoli posti dal più umile e malfamato al più decoro e d’elite. Al minuto veniva spacciato nelle “mense vinarie” (depositi di vini), che distribuivano gratuitamente il vino a chi possedeva una tessera rilasciata a tutti i poveri della capitale che avevano diritto ad una misura del vino, di cui facevano parte anche alimenti quali, pane, olio, legumi secchi, lardo, etc.

Il vino però non veniva solo regalato, ma anche venduto a coloro che durante l’attività cittadina, non potendo rientrare a casa per il pasto di mezzogiorno, non si accontentavano dell’acqua erogata dalla numerose fontane disseminate nella città, e preferivano acquistare bevande e cibi più gradevoli. Vi erano anche coloro, che poveri di soldi e che vivevano di espedienti, erano costretti a cercare bettole e bancarelle dove saziare la fame.

Per obbedire al richiamo dello stomaco e della sete, si poteva scegliere: spendere i pochi soldi rimediati in cambio di servigi, o dati dal benefattore, nel ricevimento mattutino presso coloro che vendevano gli alimenti su bancarelle, altrimenti altri luoghi di ristoro. I primi rappresentavano dei veri e propri venditori ambulanti che vendevano salsicciotti, biscotti, dolciumi, frutta secca e bibite nelle strade o luoghi pubblici. Le botticelle di questi umili venditori, che non erano trainate da animali ma dai venditori stessi, conservavano le bevande in otri, vasi di terra o anfore, ed erano protette dal sole e dalla pioggia da tende, o da tavole smontabili. Questi venditori ambulanti, così come oggi, si installavano sotto i portici, le gallerie, sotto le arcate, nelle piazze, ed alla sera riponevano le loro merci in qualche scantinato di pochi metri con un ordine meticoloso oppure se le trascinavano a casa.

Nelle strade durante il giorno, come in ogni città d’oriente, si potevano osservare tende variopinte, carrette e baracchette di legno, soprattutto nei pressi di circhi, anfiteatri e basiliche e luoghi di culto, ove si vendevano generi alimentari e bevande in occasione di feste, combattimenti e celebrazioni. L’attività dei venditori ambulanti era regolamentata da una autorizzazione ed il controllo era molto severo soprattutto nelle vicinanze dei bagni pubblici, nei teatri ed allo stadio dov’era necessario far osservare “l’ ordine pubblico”.

Se non si voleva “spizzicare” qualcosa presso questi ambulanti, ma magiare cibi più elaborati, allora era d’obbligo fermarsi presso una “taberna”. Questa parola nel corso dei secoli a subito varie trasformazioni, si tratta sempre di luoghi di ristoro con caratteristiche ben distinte. La “taberna” era all’inizio una piccola bottega di artigiani situata al pianterreno o seminterrato di uno stabile. Solo più tardi la “taberna vinaria” finì col diventare la “taverna” per eccellenza, cioè il locale specializzato nella mescita del vino al dettaglio e la consumazione sul posto, successivamente definita luogo dove “si beveva e si mangiava.” Questi luoghi erano assai numerosi a Roma ed in Italia, ma anche nelle Province, per cui il termine “taberna” è giunto sino ai nostri giorni, senza mutare molto nel suo significato, tant'è che ancor oggi il nome italiano “taverna” è sinonimo di osteria.

 

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità