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Palmira, l’estatica visione

Fra chi si dispera per la conquista di Palmira (l’Unesco e chiunque pensi che l’arte sia vita), chi s’entusiasma per l’ennesima avanzata (le forze jihadiste), chi antepone valutazioni tattiche sostenendo come quell’occupazione non sia strategicamente decisiva (l’amministrazione Obama), i colpiti dall’ennesimo atto d’un conflitto senza fine sono le decine di migliaia di abitanti che fuggendo si ritrovano profughi. Ai restanti una voce dalla moschea (un altro luogo di culto è finito sotto le bombe, di quale mano non è facile dirlo neppure secondo le locali agenzie) intima di non seguire oltre “le bande di Assad”, mentre ne uccide la retroguardia che ritirandosi ha vanificato la parziale riconquista d’inizio settimana. La “rosa del deserto”, la “Venezia delle sabbie” è, dunque, sotto il controllo delle bande nere che, oltre a occupare metà del territorio siriano, s’impossessano anche della via di comunicazione verso sud e verso la capitale. La presa di Palmira ha l’effetto mediatico che l’Isis cerca a ogni suo passo. La stampa internazionale evidenza la notizia, anche perché le minacce rivolte al patrimonio artistico, che già hanno prodotto scempi a Mosul e Ninive, potrebbero ripetersi in uno dei siti archeologici più luminosi del mondo.

La luce delle pietre di Palmira, i suoi vapori di aurora dalle rosee dita sono un miracolo che anche in questi anni di guerra civile (certo non negli ultimi undici mesi del tracimare jihadista) vedeva turisti in avventuroso viaggio per approssimarsi al Tetrapylon, al teatro romano, al tempio di Baal: meraviglie millenarie che hanno visto campagne ed eserciti ma hanno resistito al tempo e alla smania di supremazia. Col coraggio e l’audacia del nome femminile di Zenobia, la regina che seppe opporsi all’imperatore Aureliano e alle rinnovate mire persiane. Con lei quel luogo immerso nella polvere, che i raggi solari fanno ocra o rossastra, divenne coacervo di vita e culture plurime; un’osmosi di lingue ed etnìe in movimento più mercantile che di trasmigrazione forzata. Certamente oasi di conforto a carovanieri, beduini, esploratori, fra chi dal Mediterraneo portava doni a Oriente per ritornare con le seti cinesi. Quel mondo antichissimo è ancora davanti agli occhi di chi vuole ammirarlo, seppure in questi anni è stato dimenticato, come i morti - si dice duecentomila, ma chi li rintraccerà mai - d’un conflitto civile-tribale-religioso-politico e maledettamente geostrategico che insanguina quel che resta della Repubblica araba di Siria. Chiamata così da settant’anni, che era stata colonia francese, territorio ottomano, arabo, greco-romano, seleucide, babilonese e prim’ancora egiziano. Su tutto c’era Palmira, l’oasi, l’estatica visione che rischia di sparire.

Enrico Campofreda, 22 maggio 2015 

 

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