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 PROCESSO DELL’UTRI  “Mio fratello riciclava
i soldi dell’eroina nelle società di Berlusconi”

La Cassazione sta per decidere il destino del processo a Marcello Dell'Utri per concorso esterno alla mafia. Nel secondo processo di Appello, che il 25 marzo scorso ha confermato la condanna a sette anni di carcere per Dell'Utri, sono emerse anche storie nuove.

Oggi AgoraVox pubblica quella che ha raccontato per la prima volta ai giudici il pentito Gaetano Grado, i cui fratelli sono stati per vent'anni tra i più attivi in Europa nel traffico di droga e nel riciclaggio. Nei suoi interrogatori, Grado ha parlato dei traffici di eroina di suo fratello Antonino e dei soldi che avrebbe riciclato nelle società di Berlusconi. Ma anche della guerra di mafia dei corleonesi e di come Dell'Utri sia riuscito a salvarsi. E di un piano per uccidere Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore. 

Uccidere Vittorio Mangano per recuperare i soldi del traffico di eroina che suo fratello aveva investito nelle società di Berlusconi. L’incarico che il sanguinario boss di Cosa Nostra Gaetano Grado racconta di avere affidato a un camorrista napoletano che aveva conosciuto nel carcere di Vasto sarebbe stato portato a termine senza complicazioni, se solo il killer designato non avesse deciso di pentirsi e collaborare all’ultimo minuto con la giustizia.

«Volendo avrei potuto usare anche altre persone per eliminare Vittorio Mangano, ma preferii usare lui che era napoletano, e quindi fuori dai giri di Cosa Nostra, per non fare trapelare la notizia», ha raccontato il boss pentito ai giudici del secondo processo di Appello a Marcello Dell'Utri. «Aveva (il camorrista, ndr) un venerazione per me. Gli promisi in cambio di aiutarlo con una guerra che aveva lui a Napoli una volta uscito dal carcere. Lui all'inizio accettò, poi però mi manifestò che aveva intenzione di collaborare. Io gli dissi: “Va bene, fai quello che vuoi, ma dimenticati del favore che ti ho chiesto”».

IL PADRINO DI VITTORIO MANGANO - Era il 1989. Gaetano Grado era stato arrestato da pochi mesi nella sua villa siciliana, a San Nicola L’Arena, insieme a suo cugino Salvatore Contorno, che in teoria avrebbe dovuto trovarsi sotto la protezione delle autorità americane (per questa circostanza, mai chiarita, venne prima incriminato e poi assolto un giudice di Palermo).

Erano passati quasi trent’anni da quando Grado faceva da mentore del giovane Mangano. Fu il boss Giovanni Lo Cascio a presentarglielo nel 1971, quando il futuro stalliere di Berlusconi non era ancora entrato in Cosa nostra in via formale. «Vedi se puoi fargli guadagnare qualcosa perché è un bravo ragazzo», gli disse. Grado accettò di prenderlo con sé. «Me ne servivo come autista perché non avevo la patente. Gli davo due milioni per farmi accompagnare in giro per Palermo e per Milano».

Poco dopo però le loro strade dovettero separarsi, anche se per un breve periodo: Pippo Calò aveva saputo che Mangano lavorava per Grado e gli aveva chiesto di "combinarsi" uomo d’onore nella sua famiglia (di cui poi, racconterà il pentito Gaspare Spatuzza, diventerà capomandamento negli anni delle stragi), anziché in quella di Santa Maria del Gesù a cui apparteneva il suo tutore. «Mangano rischiò la vita perché non voleva accettare di essere combinato nella famiglia di Pippo Calò per farsi combinare nella nostra», racconta oggi Grado.

«Un giorno (…) venne Gaetano Cinà e mi disse che ad Arcore da Berlusconi c'era bisogno di uno stalliere e che lui aveva pensato a Vittorio Mangano che ancora non era uomo d'onore. E io acconsentii. Così Vittorio Mangano entrò ad Arcore per fare lo stalliere di Berlusconi».

Mangano divenne l’informatore di Cosa Nostra dalla villa di Arcore: «Noi cercavamo di sapere tutto di tutti. Ci interessava sapere qualcosa da Berlusconi e per questo abbiamo fatto entrare Mangano».

Avvenne lo stesso anno che Gaetano Grado scoprì che Antonino, uno dei suoi quattro fratelli, era diventato uno dei più grandi trafficanti di eroina in Europa.

IL CODICE MORALE - Lui, Gaetano, non era affatto uno di cui si potesse dire che fosse incline ad avere crisi di coscienza: era un assassino di professione per conto dei corleonesi; gli stessi che poi provvide di persona a sterminare durante la guerra di mafia che scoppiò negli anni Ottanta, dopo la morte di Stefano Bontate. Poco tempo prima di conoscere Mangano, il 10 dicembre 1969, era stato nel commando di killer (di cui facevano parte anche Riina e Provenzano) che uccise - a colpi di pistola, mitra e lupara - il boss Michele Cavataio e quattro suoi dipendenti in quella che passò alla storia come la strage di Viale Lazio (per cui Grado venne prima incriminato e poi prosciolto, fino a quando, trent’anni dopo, non se ne auto-accusò da pentito).

Uccidere era il suo mestiere, faceva parte del gioco. Ma la droga non poteva accettarla: «Io rispettavo la vera legge di Cosa Nostra: il codice d'onore di Cosa Nostra non permette di vendere droga». Così, quando venne a sapere che suo fratello, con Stefano Bontate, ne aveva fatto la principale fonte di ricchezza della famiglia, si scagliò contro Bontate: «Sei un’infame!», gli gridò. «Tu, e mio fratello pure!»

Se gli scrupoli e il “codice morale di Cosa Nostra” riuscirono a tenere Gaetano Grado fuori dal business della droga, suo fratello Antonino non voleva sentire ragioni: erano gli anni del boom dell’eroina e lui, con i suoi contatti in Turchia che gli fornivano morfina base in quantità che gli altri non potevano nemmeno sperare di riuscire a ottenere, poteva produrne tutta quella che voleva.

FIUMI DI MILIARDI - Il problema che però si poneva era: dove investire i soldi? «A Milano», risponde Grado. «Stefano Bontate stava investendo i soldi che faceva con il traffico della droga in Milano 1 e Milano 2. Mangano mi raccontò che questi soldi li trasportava lui a Milano insieme a Rosario D'Agostino, che era un uomo vicino a mio fratello Antonino. Portavano questi soldi a Milano per investirli in Milano 1 e Milano 2».

«Chiesero anche a me se volevo investire soldi lì», racconta. «Ma io rifiutai perché non volevo che qualcuno pensasse che fossi coinvolto in traffici di droga. Erano fiumi di miliardi che portavano a Milano. Miliardi».

E qui, però, il racconto del boss diventa confuso. Perché su chi fosse a ricevere brevi manu i soldi destinati alle società di Berluconi, Grado prima afferma: «non so di preciso poi lì a Milano a chi li davano». Ma poi, poco dopo, ricorda: «Vittorio Mangano, mio fratello e Stefano Bontate mi dicevano che davano questi soldi a Marcello Dell'Utri».

A PRANZO CON DELL’UTRI - Gaetano Grado, però, Marcello Dell’Utri non lo conosceva di persona. Almeno fino al 1980. Quando - racconta - ricevette un invito al ristorante. «Mi chiama mio fratello e mi fa: “Ascolta, anche per non essere scortese, abbiamo un invito al ristorante se non sbaglio Quattromori che c'è pure Marcello Dell'Utri”. Gli dico a mio fratello: “Ma tu sai che io sono astio a conoscere persone”».



Alla fine Gaetano cede «per non fare una scortesia a mio fratello», e li raggiunge al ristorante: «Eravamo io, mio fratello Antonino, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà (uomo d’onore di Santa Maria del Gesù coimputato nel processo Dell’Utri fino alla sua morte, ndr) e il dottore Marcello Dell'Utri. Abbiamo pranzato assieme. Poi loro hanno incominciato a parlare di affari. Siccome io non mi volevo immischiare mi sono alzato e mi sono allontanato».

Alcuni mesi prima di testimoniare al processo Dell’Utri, nel verbale di un interrogatorio reso nell’estate del 2012 davanti all’allora procuratore aggiunto Antonio Ingroia, Grado ha raccontato: «In quel contesto loro parlavano di affari che a me non interessavano. Dell'Utri e Mangano si davano del tu e in quel contesto, giunti al momento del caffè, parlarono di investimenti di proventi di droga attraverso consegne di denaro che lo stesso Mangano portava a Milano a Dell'Utri».

A quel punto, però, conferma Grado ai giudici del processo Dell’Utri, «quando loro cominciarono a parlare di traffici e via dicendo io mi sono alzato dal tavolo e sono andato via». Tutto, ma la droga no. «Non volevo averci a che fare con Dell’Utri anche per questo».

Qualche mese dopo i due sarebbero stati di nuovo per incontrarsi. «Dell'Utri andò nella tenuta di Stefano Bontate a Villagrazia pochi mesi prima della morte», racconta Grado. Che arrivò quando il futuro fondatore di Forza Italia sarebbe stato già a colloquio con Bontate. Al cancello trova Salvatore Federico (che non molto tempo dopo verrà ucciso nella guerra di mafia). «Mi disse: “C’è il dottor Dell’Utri”». Grado potrebbe entrare, ma non vuole disturbare Bontate: «Digli a Stefano che poi ripasso che gli devo dire una cosa». E se ne va.

GUERRA DI MAFIA - Poi cambiò tutto. Bontate voleva eliminare Riina (che, per indebolirlo, aveva già fatto uccidere due dei suoi), ma commise un errore. Grado, uscito dal carcere, glielo aveva detto di non aspettare, di farlo fuori subito Riina ‘u dittaturi. Che invece fu più veloce. Il 23 aprile del 1981, mentre tornava dalla sua festa di compleanno, Bontate trovò gli uomini di Riina ad aspettarlo ad un incrocio di Palermo armati di lupara e kalashnikov.

Dopo l’omicidio di Bontate, Gaetano Grado vorrebbe fare fuori i capimandamento dei corleonesi. Ma Badalamenti lo trattiene: «Sei uscito pazzo? Se facciamo una cosa del genere inizierà una guerra di mafia che non finirà mai più». Grado si fa convincere e i due scappano in Spagna per evitare di finire nel mirino dei corleonesi.

La guerra di mafia, però, iniziò lo stesso. Fu una mattanza in cui morirono, in tre anni, più di mille persone. Anche i traffici di eroina di Antonino dovettero fermarsi. «Dopo la morte di Stefano Bontate mio fratello si era fermato. Suppongo che anche il riciclaggio di denaro a Milano continuò fino all'82, ma non lo so con sicurezza. Mio fratello mi raccontò che continuava a investire soldi fino all'81».

Nel frattempo Gaetano Grado, sempre più disgustato dalla deriva di Provenzano e Riina, era pronto a tornare e dare battaglia. «Vedevo che nelle stragi che stavano facendo non c'era più regola: uccidevano donne, bambini, gente che non ce ne importava, che non era immischiata a niente. Io questo non mi andava bene. C'era Gaetano Badalamenti lì a Madrid il giorno che piglio il giornale e - non è cosa mia - ho bestemmiato! Perché io non ho mai bestemmiato in vita mia, che è volgarità per me! E gli dico: “O ce ne andiamo a Palermo a fare la guerra oppure me ne vado”»

Badalamenti, che non dovette trovare entusiasmante l’idea di tornare a Palermo e farsi ammazzare da Riina, preferì restare a Madrid. Grado va in guerra da solo: «Io decido, mi raggruppo, piglio un po' di ragazzi che avevo con me, me ne vado e inizio a fare la guerra contro i corleonesi. Ammazzai tanti capifamiglia perché non toccavo i semplici uomini d'onore perché avevo da fare stragi tutti i giorni. Dopo che ammazzai tutti questi capifamiglia si riuniscono, per quello che risulta a me, Michele Greco, un altro traditore, con Totò Riina, che dice a tutti: “Chiudetevi dentro perché c'è lui (Gateano Grado, ndr) a Palermo e chiunque esce fuori lo ammazza”».

Alla fine i corleonesi scoprono dove si nasconde, e lo fanno arrestare. «Perché ad ammazzarmi non ci riuscivano».

IL COPERCHIO DI TUTTE LE PENTOLE - La carneficina dei corleonesi, per Gaetano Grado, sarà una magra soddisfazione perché, nel frattempo, tutti gli investimenti di suo fratello Antonino - compresi quelli a Milano - «li ha presi quasi tutti Totò Riina perché i Pullarà conoscevano gli investimenti di mio fratello e riferivano tutto».

Ma come fece Dell’Utri (e con lui Vittorio Mangano), che era sempre stato dalla parte di Bontate (che, secondo Grado, lo riteneva persino «un amico»), a sopravvivere a un cambio di regime così spietato?

«Lo sentivo da tutti che lui era il cucchiaio di tutte le pentole. Marcello Dell'Utri conosceva tutti nell'ambito di famiglie mafiose e, quando poteva favorire, favoriva tutti. Cioè non si inimicava con nessuno».

«Il dottor Dell'Utri aveva una venerazione per Stefano Bontate», racconta Grado. «Però, dopo la morte di Bontate, i corleonesi sapendo che ne era stato amico l'avrebbero fatto eliminare. E allora Marcello Dell'Utri sicuramente è diventato pure amico dei corleonesi. Per questo dico cucchiaio di tutte le pentole: perché una vorta era con questi, 'na vorta era con quelli».

«Altra gente mi raccontava che Marcello Dell'Utri faceva dei traffici (diversi da quelli di droga, ndr), ma non mi dissero di preciso quali traffici», ammette il pentito davanti i giudici della Corte d’Appello.

«Stefano mi diceva che Marcello Dell'Utri era una degnissima persona, una persona perbene. Ma anche Vittorio me lo ha detto dopo che io gli dissi che non lo volevo conoscere: “Marcello è un caro amico di tuti”».

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