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Obama condannato alla grandezza

Primavera 2013. Archiviate ormai da mesi le pratiche elettorali che hanno portato alla rielezione del presidente in carica, l’America, pur lontana dalla rovina europea, vacilla, bersagliata dalla crisi socio–economica; piaga impertinente, rea d’aver sconfinato in un microcosmo, permeato di ottimismo, orgoglio, arroganza, determinazione e megalomania. L’inattaccabilità del miraggio, la prospettiva di un exploit ispirato da predecessori bravi e fortunati a sovvertire il pronostico, viene scalfita. La descrizione del sogno statunitense e dei benefici postumi non contemplava gli inficianti agenti esterni, gli sgambetti, i boicottaggi e gli amari coup de téatre, ai quali, suo malgrado anche il più irriducibile dei nipoti dello “zio Sam”, ha dovuto abituarsi.

Le insidie sono piovute anche dall’interno e più d’una volta la paternità dei tracolli, sfiorati, potenziali o effettivi è stata attribuita a Barack Obama. Difatti, se nella preistoria il rigoglioso orizzonte a stelle e strisce era una proiezione rappresentante prosperità inestinguibile ed allettante per i dirimpettai transoceanici, disposti anche a lunghe traversate pur di banchettare ingordamente della distesa di possibilità offerte dal nuovo continente, oggi ci rifletterebbero due volte prima di tentare un azzardo simile. Il primo presidente afroamericano U.S.A. personificava il trionfo dell’ uguaglianza (concetto comunque tutt’altro che nuovo ai suoi concittadini), il terminale di un processo, lo stendardo di una tendenza che non poteva tardare ulteriormente ad affermarsi.

Le aspettative sul mattatore di McCain (avversario primarie 2008) lambirono l’epico, quando al successore di George Bush fu assegnato il nobel per la pace sulla fiducia, poiché non preceduto da un operato rubricabile come umanamente lodabile. La dogana degli scettici contava solo le titubanze dei conservatori, affezionati alle tradizioni a loro dire deflagrate dopo la debacle repubblicana coincisa con l’alba del primo mandato del promotore dell’ onda "yes We can", ostilità, comunque che non poteva rappresentare un agente virulento al moto di nuova fioritura.

Nonostante la percentuale di consensi correlata all’affermazione, i guai di Obama non si fecero aspettare. I rapporti con l’opposizione resero farraginosi i cambiamenti. La fibrillazione riguardò la riforma sanitaria. Prima di Obama la legge garantiva assistenza ed una certa quantità e qualità di cure in base alle risorse pecuniarie del paziente. Obama intendeva abolire la discriminazione presente in tale legge, la quale favoriva i facoltosi , ed il proposito fu portato a termine e furono assicurate cure dignitose anche ai compatrioti avente scarsa disponibilità economica. Ma la fragilità della condizione nazionale, cagionata dall’alterabile fronte europeo già allora in caduta libera, subì un ulteriore dissesto che venne mal digerito dai repubblicani, precipitatisi ad affibbiare la responsabilità alla manovra ospedaliera.

Le ripercussioni dei mercati, in ginocchio, condussero all’estinzione di innumerevoli istituti di credito. Contemporaneamente le quotazioni finanziarie precipitarono, piombando sui colli dei borsisti, decapitandoli degli averi, fato avverso che li accomunò ai funzionari bancari, dei quali celeberrimi divennero gli scatoloni contenenti quello che gli era rimasto, la foto dei cari incorniciata, elisir causticante la nostalgia per gli stessi, dei ninnoli con cui avevano arricchito la postazione lavorativa e le documentazioni sgualcite riconsegnategli dalla direzione. All’appello, non per tutti ma per molti, mancava la speranza, la quale non presentandosi lasciò un posto vacante che venne usurpato dalla disperazione perfida nel condurre sull’altopiano il tapino di turno che dalla stessa fu poi sospinto giù, prima di dileguarsi ed inscenare un suicidio. Una disfatta seconda solo al crollo di Wall Street datato 1929.

Il roseo miraggio del mandato Obama sbiadiva ed il malcontento degli elettori bussava. In quanto nobel per la pace in carica, il presidente si sentì in dovere di ricucire i rapporti con l’oriente e di pari passo con la folta rappresentanza presente sul suolo americano. Il progetto di una moschea ubicata a Ground Zero fece insorgere i connazionali del presidente, indisponibili a tendere la mano verso la religione alla quale apparteneva l’orchestratore degli attentati terroristici contro il Pentagono e le Twin Towers.

Risultato, dissesto supplementare all’amministrazione Obama, mentre l’ombra delle elezioni si allungava sull’uomo del cambiamento e fioccavano le lamentele per lo scarso interesse del governo nei riguardi della disoccupazione, la quale raggiunse apici preoccupanti. La difficoltà di comunicazione, inoltre, ha fatto passare inosservati successi storici, uno su tutti aver evitato il collasso americano e limitato la “Grande Depressione”.

Le certezze vennero meno e la riconferma eventuale appariva improbabile, sia a fronte del gradimento claudicante, che a Mitt Romney, un repubblicano anagraficamente vicino ad Obama ma fedele alla linea conservatrice. Il presidente è sembrato più volte sul punto di cedere il passo, senza però mai farlo.

L’ ultimo atto lo vide avere ragione dello sfidante con eloquenza inattesa, la quale suggeriva un secondo mandato più sereno del primo, in virtù anche degli insegnamenti di cui Obama avrebbe fatto tesoro per non restar vittima di errori penalizzanti dettati dall’inesperienza. Il rinnovato corso punterà e raggiungerà molteplici orizzonti prima di imbattersi nel suddetto che sancirà il tramonto ed anticiperà il resoconto che stabilirà l’assoluzione o la condanna del popolo verso il presidente partente.

L’operato di Obama può, difficoltà preventivabili a parte, definirsi egregio. L’apertura nei confronti dell’opposizione risparmiandosi un dannoso muro contro muro. Non trincerandosi dietro l‘ostinatezza e correggendo il copione in corsa senza alterare gli aspetti migliori, ripartendo dagli antipodi e non reputando alcun risultato acquisito senza lottare.

Le redini degli Stati Uniti gli sono state roventi in mano, però con parsimonia ha condotto un paese maestoso ed orgoglioso attraverso una decade, duellando in più d’una circostanza con le contraddizioni ed i capricci del volgo, affranto per le uccisioni avvenute presso gli istituti scolastici, ma che non si mostra disposto ad accettare restrizioni sull’ ottenimento del porto d’armi e sulla facilità d’acquisto. Obama,inoltre è stato sottoposto ad innumerevoli berline mediatiche per aver preferito al ruolo di condottiero statista quello di filantropo ed attivista umanitario (tralasciando l’assassinio di Osama Bin Laden).

Oltre alle già citate riforma sanitaria ed ergere della moschea (accolta come un'epidemia letale ma nata per tramutarsi in un ramoscello d’ulivo con cui riappacificare la cultura occidentale ed orientale), il giustiziere di Romney ha decretato con la sua insistenza l’annientamento della restrizione che impediva alle coppie omosessuali di convolare a nozze. La top class americana (ossia chi vanta un reddito più elevato rispetto alla media ) è stata violentemente tassata, azione determinante una minor pressione fiscale sui ceti meno abbienti.

Il giorno in cui verrà scritto l’ultimo capitolo dell’era Obama, più che il giudizio pubblico dovrà temere lo scrutinio intimo, il quale non verrà riportato sui tomi storici e non potrà subire in caso di fallimento, il soppiantamento da parte di una nuova possibilità (impossibile terzo mandato) o, osservando l'avvicendamento dall’angolazione degli elettori, la speme per il sostituto prossimo giungente.

Obama non sarà un testimone, un membro dell’entourage o un civile. Sarà "solo" un ex presidente. Il popolo non ha fatto mistero di un appetito per gesti concreti mirati al miglioramento effettivo delle condizioni sociali, le quali in remoti tempi andati erano ben peggiori delle attuali e nonostante ciò le memorabili imprese umanitarie, speculari alle suddette portate a termine da Obama, occupavano un posto privilegiato nel breviario delle priorità per la collettività. Invece sembra come scaduta la sensibilità idealistica, negli U.S.A. come nel mondo e l’importanza data a quest’ aspetto dal primo presidente afroamericano ha fatto da parafulmine per rimbrotti e biasimo. Alcuni sostengono che si sarebbe ritagliato uno spazio nell’antologia presidenziale a stelle e strisce esclusivamente per un fattore razziale e non per la magnanimità dimostrata, in passato prioritaria ed in grado di consacrare predecessori del calibro di Washington e Kennedy, quest’ultimo antenato calzante con il profilo di Obama per i traguardi e le diffidenze di cui fu oggetto; difatti anche Kennedy fu contestato a causa dell’invio delle truppe americane presso il Golfo, scelta che accompagnò l'adesione definitiva al conflitto.

Accomunati dalla berlina pubblica subita e rivelatisi riflesso l’uno dell’altro per la condotta tenuta, tra i due condottieri è emozionante immaginare un passaggio di consegne, anticipato dalla campagna per l’affermazione dell’uguaglianza interepidermica di Kennedy, quindi dall’ottenimento della parità e suggellatosi con il primo approdo alla casa bianca di Obama. Chi sa se, l’esigenza di libertà odierna, contribuirà all’elezione della guida politica statunitense del domani. Kennedy ha patito perché vigesse equilibrio tra genti di differenti etnie e dobbiamo a moderni crociati come lui la conquista di Obama, le scelte del quale domani, potrebbero portare ad un capo di stato dichiaratamente omosessuale, comunità ormai vantante credibilità burocratica e sociale più di ieri grazie all’affermazione di propositi paritari portati avanti da Barack, meritevole di non essersi arreso fin quando il mondo in cui vive non ha ritenuto ogni essere vivente degno di egual rispetto, nonostante la mentalità statunitense non contemplasse prima disparità di tal genere.

Un vecchio adagio recitava : "Le uniche due costanti d’ogni mandato presidenziale americano sono la casa bianca ed il malcontento degli elettori". Ed in questo tutto il mondo è paese. La parte del monito attinente all’insoddisfazione, non concerne tanto le aspettative tradite dal magnete circostanziale di queste, ma l’abitudine di riporre nel prossimo le aspettative dettate dalla proiezione di quel che vorremmo fosse, senza un presupposto, esclusivamente per addossargli la responsabilità di darci un avvenire più florido per dimenticare la necropoli lasciataci alle spalle. La formula per non restar vittima dei cliché costringerebbe a rispolverare un il pragmatismo del filosofo Pierce (1902), secondo cui il significato delle cose, ed in questo caso degli avvenimenti che si verificano, si può stabilire solo in base agli esiti che scaturiscono dalle suddette quando l’uomo ha interagito con queste. Quindi, cucendo il suddetto principio al vissuto d’ogni giorno, è preferibile attendere la manifestazione pratica di un operato e vedere cosa può scaturirne, piuttosto che speculare anticipatamente ed in seguito masticare amaro.

Alibi per gli elettori però è l’ entusiasmo che i candidati fomentano irrefrenabilmente, smistando promesse pompose, da mille e una notte. Dare la parvenza del cambiamento non implica che lo si possa garantire. Ed Obama é stato un buon presidente? Per avere una risposta chiedere a Kris Perry e Sandy Stier divenuti marito e marito. Per alcuni forse è stato un “ may, we could have done…” (forse avremmo potuto fare), ma loro di certo hanno urlato di felicità “yes, We did so!” (lo abbiamo fatto!).

 

Foto: Cherisw Tzevis

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