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Obama: come interpretare l’apertura all’Iran

Che tempismo, verrebbe da esclamare. Neanche 24 ore dopo la notizia della misteriosa (si fa per dire) morte in carcere di un giovane blogger iraniano, il presidente Obama lancia la più ampia apertura di credito nei confronti del regime iraniano che si sia vista forse negli ultimi 30 anni. Soltanto una coincidenza, o forse un brutto presagio? Presto per dirlo.

«Superiamo trent’anni di conflitti», dice Obama nel suo videomessaggio al popolo iraniano e - ha tenuto a sottolineare - ai «dirigenti della Repubblica islamica dell’Iran». Obama ha auspicato che «con il nuovo anno ci sia davvero un nuovo inizio», un «avvenire in cui gli antichi dissensi siano superati». L’America è disponibile a «cercare un dialogo onesto e fondato sul mutuo rispetto», ma anche l’Iran ha una «scelta» da fare. Non può cercare di ottenere il rango internazionale che le spetta «attraverso il terrorismo o le armi». «Abbiamo gravi divergenze che si sono amplificate con il tempo. La mia amministrazione è ora decisa a praticare una diplomazia che tratti la totalità dei problemi che abbiamo davanti a noi e a cercare di stabilire relazioni costruttive tra gli Stati Uniti, l’Iran e la comunità internazionale. Questo processo non progredirà con le minacce». Da Teheran hanno risposto chiedendo agli Usa di riparare ai loro errori.

Come leggere questa incredibile apertura di credito di Obama alla leadership iraniana? Un dialogo senza precondizioni, come per esempio la sospensione del programma nucleare, «che tratti la totalità dei problemi» tra Usa e Iran, è ciò che offre Obama. Il segretario di Stato H. Clinton aveva già aperto all’Iran in modo significativo, proponendo non molto tempo fa una conferenza internazionale sull’Afghanistan alla quale gli iraniani sono stati invitati. Ma ciò non è troppo dissimile dai contatti che l’amministrazione Bush aveva avviato ad alti livelli con i funzionari iraniani sull’Iraq. Contatti su una singola materia alla volta. E Teheran ha risposto con le solite minacce e paragonando la politica Obama a quella di Bush. Ma la nuova amministrazione Usa non vuole concedere alcun alibi agli iraniani. L’offerta di Obama rappresenta quindi una novità assoluta nel merito e nei toni: nessuna precondizione, dialogo a tutto campo, massima chiarezza e pubblicità.

E’ ovvio che da poco entrato in carica il nuovo presidente voglia misurare il grado di apertura al dialogo e al compromesso di rivali e nemici sullo scenario internazionale. E’ comprensibile che voglia rendersi conto di persona di quanto e fino a che punto certi rapporti siano resi in qualche modo più complicati da eventuali errori della precedente amministrazione e quanto, invece, siano gli interessi divergenti a renderli di per sé difficoltosi. E’ in questa chiave che vanno letti i primi approcci con la Cina, con la Russia, con la Corea del Nord, con l’Iran e la Siria. Si va dalla disponibilità a una più stretta cooperazione, addirittura una "partnership globale", con Pechino, al "reset button" con Mosca, per arrivare, appunto, al dialogo senza precondizioni con Teheran.

E’ comprensibile, dicevo, che Obama voglia sincerarsi in prima persona delle reali chance della diplomazia nei principali dossier di politica estera e di sicurezza, senza pregiudizi, ripartendo da zero come se non ci fosse stata un’amministrazione prima di lui. Vuol dire dare alle proprie controparti la possibilità di liberarsi del peso di eventuali errori ed asprezze eccessive attribuendone la causa al cattivo rapporto con Bush. Ed è comprensibile questo nuovo approccio anche nei confronti dei mullah iraniani, ma a patto che Obama riesca a tirare le somme di questo suo tentativo nel più breve tempo possibile e che non si faccia impantanare in un dialogo il cui unico obiettivo da parte di Teheran fosse quello di prendere tempo per mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto dell’atomica.



L’apertura di Obama all’Iran non va quindi demonizzata di per sé, né bollata a priori come un cedimento, un’implicita resa. Dipenderà da come il nuovo presidente condurrà il dialogo e dalle conseguenze che trarrà dalle risposte che riceverà da Teheran, nonché dalla rapidità con cui saprà valutare i messaggi della controparte. Anche da un fallimento, che appare probabile, se ne sarà capace Obama potrà rapidamente passare all’incasso di un enorme capitale politico. E’ ovvio infatti che quanto più nitida, inequivocabile, e pubblica è l’apertura di credito di Obama all’Iran, e quanto più appare sincera, tanto più, se non dovesse produrre risultati e se Teheran la respingesse, l’America potrebbe rivendicare le sue buone intenzioni, incolpare gli iraniani del fallimento della via diplomatica e ricorrere all’uso della forza con l’appoggio degli alleati.

Due appuntamenti vanno tenuti presenti per meglio comprendere questa apertura così clamorosa e sbandierata. Il 12 giugno si terranno in Iran le elezioni presidenziali, il cui esito com’è noto è nella piena disponibilità dell’ayatollah Ali Khamenei. Con la sua apertura a poche settimane dal voto Obama sta in sostanza dicendo alla guida suprema che, se lo vuole, può dare un segnale di voler ricambiare la disponibilità manifestata dagli Usa decidendo di puntare su un nuovo presidente, più moderato e adatto al dialogo di quel pazzoide di Ahmadinejad, che tra l’altro è molto indebolito dalla disastrosa performance economica (inflazione al 20% e disoccupazione al 30).

Non va dimenticato inoltre che il 31 agosto del 2010 è la data fissata per il piano di ritiro dall’Iraq. Entro quella data, dei 142 mila soldati in Iraq ne rimarranno dai 35 ai 50 mila da impiegare solo in azioni di anti-terrorismo. Come avverte Walid Phares, «il successo del piano di ritiro dipenderà dalla deterrenza che gli Stati Uniti saranno in grado di esercitare nei confronti dell’Iran e della Siria. Il piano può funzionare solo se l’amministrazione agisce celermente per dissuadere sia Teheran che Damasco» dal destabilizzare la giovane democrazia irachena.

Dunque, Obama spera che la sua apertura induca la leadership iraniana alla cautela riguardo l’Iraq. Spera di poter limitare con la diplomazia l’influenza iraniana in Iraq dopo che le truppe saranno partite.

Molti a Washington, osserva Walid Phares, sono convinti «che a Teheran prevarrà il realismo non appena l’amministrazione Obama si siederà con i mullah e inizierà a dialogare». In poche parole, credono che gli iraniani non approfitteranno del ritiro americano. Al contrario, Phares crede che sì, «la leadership iraniana si siederà, parlerà e qualche volta ascolterà, ma allo stesso tempo continuerà le sue azioni in Iraq fino al raggiungimento del suo obiettivo: quello di penetrare, influenzare e sequestrare il 60% dell’Iraq da Baghdad a Bassora non appena le forze americane si saranno ritirate. Useranno tutto il potere a loro disposizione - gruppi speciali, l’esercito del Mahdi, assassinii e infiltrazioni nel governo iracheno». Quindi, «la cosa peggiore» che Obama potrebbe fare è diminuire le forze in Iraq incoraggiando anche solo indirettamente Iran e Siria «a riempire il vuoto sul territorio iracheno».

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