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Note nere per i giornalisti musicali dopo MySpace: un mondo nuovo?

Se è vero che il Festival del Giornalismo rappresenta per ogni buon giornalista un ottimo momento per guardare agli scenari futuri, oltre alla sfilata di importanti, nuovi, vecchi e frizzanti cervelli dell’informazione, dall’altro lato è un momento per capire in che modo ci si pone davanti alle sfide di oggi. Il mondo del giornalismo musicale, ad esempio, ne esce totalmente sconfitto, nonostante sia quel ramo che più degli altri forse pullula di ruspanti giovani, aggiornati su tutto ciò che circola nelle rete sotto forma di suono, che divorano e consumano ogni cosa scritta o vivente che parli di musica. 

Col pomposo sfondo della Sala dei Notari, il 28 aprile a Perugia, quello che è risultato è uno scenario quanto mai triste e grigio. Tema “Il giornalismo musicale nell’era del dopo MySpace”, tra gli obiettivi del panel individuare i nuovi sviluppi dei rapporti tra stampa e talenti musicali e del relativo cambiamento del fare storytelling del mondo dello spettacolo. Protagonisti soprattutto quelli che nel settore sono partiti con la macchina da scrivere, con modelli nemmeno paragonabili a quelli odierni e che fanno fatica a reggere appena l’ondata di informazione in entrata dal pubblico di massa connesso, interattivo e spesso anche incavolato. Ovvero Gino Castaldo (La Repubblica) e Alberto Cusella (discografico). A rappresentare la schiera di giovani addetti alla musica Diletta Parlangeli (DNews), in un ruolo troppo accondiscendente verso i “maestri”, che moderava l'incontro assieme ad Alessio Jacona. 

A fronte del cambiamento intercorso dal 2007, in cui si stima che il tempo trascorso sui social network sia passato da 1 minuto su 12 a 1 su 6, viene facile capire come MySpace sia stato scansato nel maggio 2009 da Facebook con ben 157,2 milioni di visitatori unici (contro 34.000). Il futuro per i musicisti è lì spiegano: “Abbiamo dovuto abbandonare MySpace perché il pubblico si era spostato in massa su Facebook, non avevamo più interlocutori”. Le grandi case discografiche preferiscono fare accordi con YouTube e non pensano nemmeno più alle conferenze stampa. Il vero problema resta lui, il vecchio giornalista di redazione: non è più l’interlocutore privilegiato, vede moltiplicarsi i canali, deve sbrigarsi ed è sempre troppo indietro rispetto ai tempi.

Emerge un giornalista usato, preso in giro da più parti: dal discografico che ha cambiato totalmente la promozione e che, giustamente, ha come prima fase un lavoro di marketing su YouTube, Facebook e social network, solo in un secondo tempo – se il giornalista è così lento da non essersene accorto di suo – si contatta la stampa. E’ preso in giro anche dai musicisti, come spiega Alessandro Pieravanti (Il Muro del Canto) che sostituisce Max Pezzali, “I giornalisti scrivono di te riprendendo la tua presentazione: la strategia delle band ora è quella di scrivere una presentazione assolutamente altisonante in modo che poi tutti quelli che la vanno a riprendere ti fanno fare una figura bellissima. Però poi ti ritrovi con 50 recensioni uguali in cui tu metti in bocca al giornalista che sei Micheal Jackson”. La giustificazione del giornalista è semplice “nel lavoro del giornalista cambia il concetto di tempo e di verifica delle notizie”, e come da secolare tradizione è chiuso, spaventato e affascinato allo stesso tempo dalle novità: “Il nostro approccio non deve essere certo. Quello che sta accadendo ora è il nuovo mondo in cui tutto quello che diciamo (Facebook, siti, nuovi modi per i gruppi di farsi conoscere) e tutte le realtà sono come conquiste del West che daranno i loro esiti tra un po’” dice Castaldo. Che è come dire: aspettiamo e vediamo che succede, nel frattempo facciamo finta di niente.

C’è anche un volto conosciuto da quelli del settore nel pubblico: alza la mano Enrico Veronese (Blow Up, Italian Embassy) che prova ad alzare anche tutta la categoria dei giornalisti che ogni giorno fanno scouting impelagandosi nel più profondo underground: “Come mai i media tradizionali non implementano le redazioni con quelle figure che scoprono per primi band, artisti e filoni che poi i media principali scoprono e propongono dopo anni? Sono figure che aiutano anche il resto dell’editoria, che hanno un seguito e che possono migliorare il prodotto di Repubblica, ad esempio”. La risposta, sbrigativa e imbarazzata, del rappresentate delle grandi redazioni non può che essere in tono sommesso: “Tutti i giornali sono grandi macchine redazionali nate in un’altra epoca che si trovano nel processo contrario: stanno sfoltendo le redazioni”.

Emerge quindi anche un discorso senza interlocutori, che trova il suo apice quando una ragazza del pubblico chiede di delineare quattro fonti affidabili di informazioni musicali. L’ospite americano, Charlie Amter (Chappell Music) risponde con estrema naturalezza “Pitchfork, New York Times, Rolling Stone, Wired Magazine”, il rappresentante italico della categoria concorda su Pitchfork e fa finta che non gli vengano proprio in mente altri siti.

Dal pubblico una persona inglese chiede se Soundcloud possa cambiare il lavoro giornalistico, “permette di inserire il testo nella clip, di commentare ogni secondo di un brano”, per Charlie Amter non è ancora un avanzamento utile rispetto a MySpace perché “non dà una visione chiara della band, è ancora troppo impersonale”. Gino Castaldo ammette di non sapere quasi cos’è “beh si lo trovo utile, ma faccio già fatica a seguire tutto quello che arriva o che devo cercare”. Un ragazzo poi chiede se sia il caso di non essere troppo critici con chi esce da Amici e talent show. Almeno qui siamo tutti d’accordo: è l’impero del male. 

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