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Niente diritti per i figli dei combattenti stranieri in Siria

(di Samar Mahna, per al Quds al arabi. Traduzione di Patrizia Stellato)

Quando la trentenne siriana Ghalia ha sposato il combattente marocchino Abu Yaman, non pensava all’identità dei propri due figli o a quello che sarebbe potuto loro accadere in futuro: non prendeva nemmeno in considerazione – racconta – la possibilità di perdere suo marito in battaglia.

Il padre di Ghalia, originaria dei sobborghi liberati di Latakia, quando ha portato sua figlia davanti allo sheykh per il matrimonio ha rispettato il desiderio del combattente soprannominato Abu Yaman di non rivelare il suo vero nome, perché “per ragioni di sicurezza i mujahidin stranieri non svelano la propria identità”. Ma il dramma non ha colpito solo Ghalia ma i suoi figli che hanno preso il cognome materno.

A due anni dal matrimonio, Ghalia ha perso il marito in uno scontro con il regime siriano e ora non sa quale sarà il futuro suo e dei suoi due figli. Nel frattempo si autoaccusa poiché, al momento dell’unione, aveva già 28 anni e sarebbe dovuta essere più accorta.

La situazione di Ghalia, che vive nella zona liberata nei dintorni di Latakia, è migliore di quella di molte altre donne che hanno sposato combattenti stranieri nelle campagne di Aleppo: i loro figli, infatti, non prendono il cognome né paterno né materno ma restano senza un’identità che provi la loro esistenza, dal momento che il combattente si rifiuta di palesare il proprio nome o di dare una propria foto – secondo quanto racconta Raed, un attivista locale.

“I figli nati dal matrimonio tra mujahidin stranieri e le donne siriane di Aleppo non sono registrati”, continua Raed, ma chiarisce che ciò avviene solo nelle zone in mano ai ribelli, mentre nelle regioni governate dallo Stato islamico, la situazione è completamente diversa, in quanto i bambini vengono registrati col cognome della madre e non del padre, in consigli istituiti per gestire tali questioni.

Se un combattente straniero intende sposare una donna siriana, è necessario soltanto il registro dello sheykh, senza ricorrere a un ente ufficiale come la Commissione della shaaria o ai Consigli locali per registrare quest’unione che tutela i diritti di entrambe le parti.

Salim, un attivista della campagna di Latakia, invece, sostiene che “questa situazione non si verifica dovunque”. Nella sua zona le unioni vengono regolarmente registrate con un certificato di matrimonio, registrato presso un tribunale sciaraitico, ma aggiunge che questo tipo di matrimonio non è molto comune a Latakia e la Jabhat al Nusra ha istituito nella regione degli uffici che registrano questi contratti matrimoniali.

Inoltre fa notare che in Siria ci sono combattenti di diverse nazionalità. I ceceni ad esempio non sposano le donne siriane a causa degli ostacoli linguistici, ma sposano le turcomanne della campagna di Latakia, con cui possono comunicare perché ne conoscono la lingua. Racconta poi la storia di un matrimonio tra un combattente marocchino e una giovane siriana di Hiffa, nella regione di Latakia, che – per quanto ne sa – è “ben riuscito”, perché “i ceceni e i marocchini sono tra i combattenti più gentili in Siria”.

Raed, l’attivista della campagna aleppina, invece, fa notare che la maggior parte ragazze della zona che sposano mujahidin stranieri non sono giovanissime, di solito la loro età supera i trent’anni, né particolarmente avvenenti, dal momento che una ragazza giovane e bella non accetta un matrimonio di questo tipo. Inoltre, spiega che gli abitanti della regione non sono consapevoli delle implicazioni di queste unioni, soprattutto per i figli che non vengono registrati.

Ma Raed dice che storie d’amore tra ragazze siriane e combattenti stranieri sono nate dopo il matrimonio. Racconta la vicenda di una giovane che, giunta dal comandante del marito, un combattente ceceno, gli ha chiesto di mandarla in un’operazione suicida se mai suo marito fosse morto, tanto grande era l’amore che provava per lui.

Qais Abdullah al Shaykh, uno dei fondatori del Consiglio giudiziario siriano libero, sostiene a sua volta che il matrimonio deve essere regolato dalla shaaria secondo la legge sullo status personale e si fonda sull’accordo tra le parti, accordo che non può essere garantito se si ignora il vero nome di una di esse, poiché ciò priva la moglie e i figli di molti dei loro diritti. al Sheikh spiega che, in caso si decida ti porre termine a questo contratto di matrimonio, non è possibile chiedere a una persona di cui non si conosce l’identità di sostenere le spese, e non si potrà chiarire la regolarità del matrimonio né la genealogia dei figli, che non potranno quindi avere diritti sull’eredità.

Così come non è possibile terminare il contratto appellandosi all’inefficienza del marito senza conoscere il nome o essere sicuri della sua identità. Inoltre, la moglie potrebbe entrare in contatto con un’altra persona, non conoscendo il nome del coniuge, e non sarebbe possibile controllarlo. Analogamente, l’uomo potrebbe avere rapporti con un’altra donna senza che si sappia se è sposato o no.

Se non si conosce il nome del coniuge, spiega ancora al Shaykh, i figli nati da questo matrimonio non possono essere registrati col nome del loro padre e vengono così attribuiti a qualcun altro, contravvenendo alla shaaria. Se, invece, l’uomo rivelasse in segreto il suo vero nome alla moglie o al tutore di quest’ultima, sarebbe allora possibile dirimere la questione perché, se fosse costretto, il tutore potrebbe rivelare il nome e confermarlo. La legge, infatti, consente la registrazione del matrimonio solo attraverso il registro civile, che attesta nome e parentela della persona e luogo di registrazione. Qualora il marito straniero muoia in battaglia e la vedova decida di partire per un Paese straniero, spiega al Sheikh, “in ogni Stato vige un diverso ordinamento in materia, ma a una donna fuggita da una guerra non vengono chiesti i documenti ed essa è registrata come rifugiata. Per esempio il governo turco agisce in questo modo”.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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