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Nicosia. Un libro pro-marijuana o di denuncia del fallimentare sistema carcerario italiano?

“Leone bianco Leone nero – La legge non è uguale per tutti” è il titolo e il sottotitolo del romanzo d’esordio del nisseno Giuseppe Nicosia, laureato in Scienze Naturali dal 2006 ed Educatore Alimentare dal 2008. Edito da “LG Edizioni”, è composto da 283 pagine e il suo prezzo di copertina è di € 14,90. Il sito dove lo si può acquistare online è qui.

Si tratta del diario-denuncia del fallimento del sistema carcerario italiano che a causa di molteplici carenze, da quelle strutturali a quelle organizzative, chiaramente non riesce ad assolvere il fondamentale e civile compito di istituzione riabilitativa del carcerato, dato che il 70 % dei detenuti una volta uscito torna a delinquere. Un diario che l'autore ha scritto proprio fra le quattro mura del carcere “Malaspina” di Caltanissetta nei suoi 51 giorni di detenzione per avere coltivato piantine di marijuana, nonostante gli inquirenti per tale produzione non hanno accertato alcuno spaccio ed egli ha sempre sostenuto che fosse per uso personale, per evitare di comprarne sul mercato clandestino a caro prezzo e di scarsa qualità. In Italia l’uso personale di cannabinoidi è tollerato, ma non esistendo “rivendite autorizzate”, di fatto, la stessa legge garantisce il monopolio del mercato e ingenti introiti illeciti alla malavita organizzata, dato che la coltivazione per uso personale è ancora proibita.

I recentissimi dati della Committee on Drug Dependence ci dicono però che in dieci anni il consumo mondiale degli oppiacei nei Paesi dove sono proibiti è aumentato del 34,5%, quello della cocaina del 27% e quello della cannabis del 10%, a riprova che la politica proibizionista e fortemente repressiva riguardo alle sostanze stupefacenti è stata ed è totalmente fallimentare, come lo fu negli anni Venti in USA quella sulle bevande alcoliche, dove i consumi continuarono clandestinamente e l’unico risultato che si raggiunse fu l’impinguamento delle tasche della malavita.

Il libro del Dott. Nicosia è anche un’accusa rivolta alla legge Fini-Giovanardi che equiparando in quanto a pericolosità e dipendenza le droghe leggere a quelle pesanti, l’unico deleterio risultato raggiunto è di riempire le carceri italiane e i centri di recupero dalla tossicodipendenza di persone che hanno avuto la sola colpa di trovarsi addosso qualche grammo di erba in più del consentito per l’uso personale, pur non essendo affatto dei delinquenti incalliti o sempre dei tossicodipendenti, poiché l’uso della marijuana ad esempio non comporta alcuna dipendenza, come dimostrano molti studi. L’autore invece riporta le cifre relative all’uso di alcool e tabacco, la cui dipendenza e mortalità è acclaràta; prodotti di cui lo Stato italiano ha il monopolio: 3 milioni di morti l’anno nel mondo per tabagismo e 1,4 milioni per alcolismo, mentre per marijuana non è morto mai nessuno. A queste cifre fra l’altro ci sono da aggiungere le vittime e i costi dovuti agli incidenti stradali causati dalla guida in stato di ebbrezza (il 45 % circa), purtroppo sempre in ascesa.

Liquidare però questo libro semplicisticamente come pro-marijuana è molto riduttivo. Pur se in esso l’autore parla anche dei molteplici buoni usi che di questa erba se ne potrebbe fare se fosse legalizzata, dal carburante ecologico ai tessuti e persino agli impieghi terapeutici vari, sfatando tutti i deleteri luoghi comuni in cui quasi un secolo di colpevole e dolosa potente disinformazione l’ha precipitata e fortemente demonizzata; l’autore gli immette anche e soprattutto un alto contenuto umano nel descrivere la quotidianità del mondo carcerario, fatto comunque di esseri umani che hanno sbagliato (non tutti giacché è alta la percentuale di vittime di errori giudiziari) e stanno pagando il loro debito con la società. Un’umanità che tenta di sopravvivere e di superare alla meno peggio la noia e il vuoto di una quotidianità monotona fatta di rituali in apparenza banali e ripetitivi, quali attendere i pasti, l’ora d’aria, le settimanali visite parenti, o fare le pulizie della cella e preparare insieme qualche dolce o pasto extra per sentirsi ancora delle persone e non soltanto numeri difettosi d’un’istituzione e di una società per molti versi fallimentari. Un’umanità che cerca di conservare quel minimo di dignità e rispetto di sé pur fra le abbrutenti condizioni carcerarie, che lungi dal riabilitare piuttosto disperano e comportano molteplici pensieri negativi che spesso sfociano in azioni autolesionistiche. Nel secondo frontespizio del libro l’autore riporta la frase di F. M. Dostoevskij: Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”.

Cosicché il romanzo di Giuseppe Nicosia, con uno stile scarno ed essenziale, sempre chiaro e semplice anche quando esprime concetti profondi, ha l’indubbio pregio di portare all’esterno in forma letteraria, fatto molto raro, la quotidianità del chiuso mondo carcerario. Come un moderno Silvio Pellico trascrive “le sue prigioni utilizzando le sue certamente innate capacità descrittive e narrative, ma anche la sua cultura di ragazzo sensibile e laureato, che per un’azione che in altri Paesi non è considerata affatto reato, la coltivazione e l’uso di cannabinoidi, ha dovuto pagare con la reclusione e poi con i domiciliari. Vien da pensare che le leggi essendo fatte dagli uomini e non certo da Dio, davvero spesso alcune possono rientrare fra quegli assunti relativistici eccessivamente affidati alla discrezionalità di menti non sempre illuminate. Se, per assurdo, il legislatore decidesse di depenalizzare l’omicidio ad esempio per il Capo dello Stato, questi uccidendo un proprio simile di fronte alla legge rimarrebbe un incensurato. Nella quarta di copertina l’autore cita G. Giolitti con la frase “adattata” dalla Radicale On. Rita Bernardini: Per i nemici (e gli sfigati) le leggi si applicano, per gli amici si interpretano”.

In questa dettagliata descrizione, quasi a voler trasmettere la piattezza quotidiana del carcere superata con gesti e rituali che scandiscono e fanno scorrere un po’ meglio il tempo, come a volerlo oliare similmente a un meccanismo arrugginito che stenta a sbloccarsi, l’autore abbozza appena dal punto di vista fisico ma anche del carattere, e spesso niente affatto, i personaggi ivi rinchiusi. Solo il rispettivo nome vorrebbe distrarli dall’anonimato a cui sembrano condannati per un sovrappiù di crudeltà della società ad esempio il Buono, il Cattivo, il Biondo, il Bello, il Cotto, ecc.; ma anche questi pur eloquenti epiteti sembrano servire a poco. La piattezza, la monotonia della vita carceraria è difficile da diversificare, per cui anche i detenuti-personaggi sembrano confondersi tra di loro, amalgamati come in un potente frullatore dalla routine di quattro mura o del cortile per l’ora d’aria. Cosicché il Cattivo può benissimo interscambiarsi col Buono che invece dovrebbe essere il suo opposto, il Biondo col Bello e via di seguito.

Solo il detenuto Giuseppe Nicosia si diversifica nel momento in cui decide di sublimare la sua rabbia per l’ingiustizia che egli intimamente percepisce nel trovarsi rinchiuso lì dentro per un reato, che egli stesso ammette di avere compiuto consapevolmente, ma che non ha arrecato male a nessuno e che anzi solo dal momento del suo arresto ha cominciato ad arrecare a tanti, a lui, ai suoi cari ma anche alla società nel senso che i costi della sua detenzione sono a carico dei contribuenti, e per evadere con la mente da possibili pensieri disperanti, semplicemente scrivendone. Dopo avere acquistato di tasca propria il materiale necessario per scrivere, appunta meticolosamente ciò che gli accade ogni giorno, a cominciare dal risveglio col niente affatto dolce clangore del blindato, fino a un istante prima di riaddormentarsi la sera. Annota tutti i suoi pensieri, le sue pulsioni e i suoi gesti atti a non smarrire lo stile di vita sano a cui da sempre è abituato (ciò a significare che la marijuana non gli ha annebbiato il cervello e svigorito il corpo, né tantomeno lo ha reso dipendente visto che in 51 giorni di reclusione, non avendone ovviamente potuta fumare, non ha avuto affatto crisi di astinenza), allenandosi nel corpo con faticosi esercizi ginnici e lunghe corse nel piccolo cortile del Malaspina, e nella mente con le letture non certamente facilitate né da un’efficiente servizio di biblioteca né dal clima poco sereno e poco silenzioso di una cella, e soprattutto niente affatto intimo. Annota pure i dialoghi con gli altri detenuti che reciprocamente si scambiano parole di incoraggiamento e conforto per superare le loro scialbe giornate e la nostalgia dei cari affetti e della libertà, e snocciolano nei loro discorsi pensieri sorprendentemente filosofici e profondi sulla vita, sull’amore e sul sistema giudiziario e carcerario italiano.

Quando a Nicosia gli vengono concessi gli arresti domiciliari, il 18 Dicembre 2008, egli torna a casa certamente un uomo diverso da come era prima del suo arresto, ma in senso negativo, e cioè arrabbiato e con la sensazione di avere sprecato parecchi mesi della sua vita nel venire privato, giustamente o ingiustamente, della sua libertà all’interno di un carcere senza avere avuto la reale possibilità di seguire un idoneo percorso di riabilitazione per il suo reinserimento nella società, dove ritorna disoccupato e con parecchi debiti. Meno male che egli ha voluto sublimare tutto in questo libro; ma quanti degli attuali 66.942 detenuti sono capaci di farlo?

Ecco alcune tragiche cifre sulla situazione carceraria italiana aggiornate al 31 Luglio 2011, tristemente riemerse in occasione dell’iniziativa dei Radicali di promuovere il 14 Agosto scorso uno sciopero della fame e della sete per una convocazione straordinaria del Parlamento affinché affronti il pressante problema delle carceri italiane. Le adesioni sono state 1.600, provenienti da chi a vario titolo si occupa di penitenziari. I detenuti sono 66.942 su un totale di massima capienza di 45.681, dunque 21.261 detenuti oltre la soglia prevista. Di questi solo 37.650 scontano una pena definitiva, 29.292 sono in attesa di giudizio; 23.916 sono stranieri, i tossicodipendenti circa 16 mila. I suicidi sono stati 40 in sette mesi, i tentati suicidi 620, gli atti di autolesionismo quasi 200, in dieci anni i suicidi sono stati quasi 700, i morti quasi 1.900”.

Nuovamente a casa il Dott. Giuseppe Nicosia fa leggere il suo diario alla moglie Tiziana che gli consiglia di mandarlo a qualche casa editrice. La calabrese “LG Edizioni” ne intuisce il potenziale letterario di informazione e denuncia e decide di pubblicarlo nel Marzo 2010. L’Autore continua a tutt’oggi a presentarlo in varie città per far conoscere la sua storia e possibilmente per evitare che altri come lui cadano negli ingranaggi di una giustizia troppo forte e severa con i deboli e debole se non corriva e complice con i potenti. Riesce a presentarlo anche alla Camera dei Deputati grazie all’interessamento dell’On. Rita Bernardini.

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