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Mostra d’arte cinematografica di Venezia: nuova giuria Uaar per il premio Brian 2020

Vi proponiamo un articolo di Paolo Ferrarini e Micaela Grosso, componenti della giuria del Premio Brian, dal n.6/2020 del bimestrale dell’Uaar, Nessun Dogma – Agire laico per un mondo più umano


Il premio Brian è assegnato ogni anno dall’Uaar alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia sin dal 2006. È un premio collaterale riconosciuto dalla Biennale che deve il suo nome al film Brian di Nazareth (1979) del gruppo comico Monty Python; la storia racconta, in tono dissacratorio, le vicende del protagonista Brian, giudeo 33enne contemporaneo di Gesù, che per una serie di vicissitudini viene ridicolmente scambiato per un messia e acclamato dalle folle. È cosa logica dunque che l’Uaar abbia scelto di ispirarsi a Brian di Nazareth e alla sua arguta accusa ai luoghi comuni e alla cecità delle masse, nella decisione di creare un premio da assegnare a «un film che evidenzi ed esalti i valori del laicismo, cioè la razionalità, il rispetto dei diritti umani, la democrazia, il pluralismo, la valorizzazione delle individualità, le libertà di coscienza, di espressione e di ricerca, il principio di pari opportunità nelle istituzioni pubbliche per tutti i cittadini, senza le frequenti distinzioni basate sul sesso, sull’identità di genere, sull’orientamento sessuale, sulle concezioni filosofiche o religiose».

Nel corso delle sue prime quindici edizioni, la giuria Uaar ha premiato una gamma molto variegata di opere: importanti film di rilievo internazionale, come Il caso Spotlight (2015), sull’inchiesta giornalistica che ha portato alla luce l’endemica pedofilia nel clero americano, e Philomena (2013), storia di un personaggio forte e drammatico la cui vita è stata segnata dagli abusi di una chiesa cinica e disumana; film dal Medio Oriente che denunciano discriminazioni e violazioni dei più basilari diritti dei non credenti, come The Perfect Candidate (2019) della saudita Haifaa al-Mansour, Les Bienheureux (2017) dell’algerina Sofia Djama, e Khastegi (2008) dell’iraniano Bahman Motamedian, che notoriamente rifiutò il premio per motivi di sicurezza personale; e ancora film italiani che danno uno spaccato di una società che tuttora fatica a collocarsi saldamente fra le più laiche e civili in Europa, da Le ragioni dell’aragosta (2007) di Sabina Guzzanti, a La bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio, e La ragazza del mondo (2016) di Marco Danieli.

L’edizione 2020, la 77ª della Mostra d’arte cinematografica di Venezia, partiva certo da premesse poco incoraggianti. La pandemia di Covid-19, con i suoi 30 milioni di contagiati, negli ultimi mesi ha infatti messo in difficoltà o più spesso impedito lo svolgimento di grandi e piccoli eventi in tutto il mondo.

Malgrado la situazione e la possibilità sfiorata di svolgere l’intero festival in un ambiente online, le sale hanno riaperto al pubblico e agli accreditati, e la Mostra si è potuta svolgere come ogni anno al Lido di Venezia. Le misure di sicurezza adottate, naturalmente, sono state robuste, e hanno previsto l’igienizzazione costante, il controllo della temperatura ai varchi d’ingresso, il distanziamento fisico sia in sala sia negli ambienti esterni e l’uso della mascherina obbligatorio anche per tutta la durata delle proiezioni. Il red carpet, poi, simbolo dell’aspetto più glam e mondano della mostra, in questa edizione “straordinaria” non era assente, ma chiuso al pubblico. Protetto da un muro, impediva la visuale dall’esterno e dunque l’affollamento dei fan a caccia di autografi e fotografie. Onore al merito degli organizzatori del festival, perché la formula offerta quest’anno era blended: oltre alla presenza fisica nelle sale (di cui due predisposte all’aperto, per il distanziamento), le conferenze stampa si sono svolte in remoto, ed è stata resa disponibile una piattaforma a pagamento per accedere in streaming ai film che, per motivi di tempo e di riduzione dei posti, non si riuscivano a visionare.

Questi e altri sistemi di gestione e tracciamento hanno assicurato un monitoraggio costante, un senso diffuso di sicurezza e un’organizzazione eccellente nel corso del primo, grande evento di respiro internazionale tenuto dopo il lockdown, che ha rimandato un forte segnale di ripresa per la cultura e di ritorno alla “normalità”, seppur ai tempi del coronavirus.

Nonostante le eccezionali difficoltà nell’organizzare una mostra del cinema in un contesto di pandemia globale, quest’anno l’Uaar ha scelto non solo di confermare la propria presenza, ma di rilanciare e potenziare l’iniziativa allineandola in modo più organico alle attività dell’associazione, con un allargamento della presenza del premio sui social e con uno sguardo ambizioso sul futuro. La nuova giuria a cinque, presieduta da Marcello Rinaldi, già giurato Brian ed ex coordinatore del circolo Uaar di Roma, annovera fra i membri Adele Orioli, del Comitato di coordinamento nazionale, Paolo Ferrarini, già giurato Brian e redattore della rivista Nessun Dogma, Micaela Grosso, nuova giurata, redattrice di Nessun Dogma, e Maria Teresa Crisigiovanni, socia frequentatrice della mostra e indispensabile aggancio con il locale circolo Uaar di Venezia.

Dopo aver visionato e discusso circa 50 film, distribuiti fra le varie categorie della mostra, la giuria ne ha individuato uno particolarmente importante e rilevante, a cui ha infine deciso di assegnare il premio: Quo vadis, Aida?, della regista bosniaca Jasmila Žbanić. Si tratta di una grossa produzione internazionale che porta sullo schermo uno degli episodi più abietti della recente storia europea, il massacro di Srebrenica del luglio 1995. Nell’ambito di una sporca guerra civile alimentata dall’odio interetnico e interreligioso, il film si concentra sulla figura di Aida, interprete per le Nazioni Unite, che si trova a navigare in una rapida escalation di violenza e disperazione, cercando come può di salvare la sua gente e la sua famiglia dall’imminente genocidio. Non è soltanto portavoce e ultimo baluardo di umanità e razionalità in un mondo impazzito, dove è costretta a mediare tra psicopatici generali serbi assetati di sangue e funzionari Onu impotenti e criminalmente distratti: Aida è presentata anche e innanzitutto come una donna forte, indipendente, una leader che sa assumere i panni del capofamiglia e prendere con prontezza decisioni audaci e vitali. Soprattutto, è una donna laica, che nel suo essere equidistante dalle credenze religiose alla base delle fratture etniche nei Balcani, riesce a fare da cerniera tra gli orrori della guerra e un futuro in cui nemmeno un crocefisso, straziante simbolo di oppressione ostentato da chi le ha occupato persino la casa, è più in grado di provocare odio e risentimento. Ripartire dall’istruzione e investire nelle nuove generazioni è la sua risposta al male di cui è stata testimone e che ha subito sulla propria pelle: una risposta che la erge ben al di sopra del semplice ruolo di vittima della storia.

Prima di conferire ufficialmente il premio Brian 2020 a Jasmila Žbanić, però, altri due film hanno attirato le attenzioni dei giurati. Uno di questi è Miss Marx, di una delle otto registe in gara, Susanna Nicchiarelli, che nel 2017 aveva vinto con Nico, 1988 il premio Orizzonti per il miglior film. Miss Marx racconta la vita di Eleanor (familiarmente detta “Tussy”), scrittrice, traduttrice e attivista politica; una donna colta e impegnata in Inghilterra nelle lotte operaie, per i diritti delle donne e contro il lavoro minorile. Nel 1883, però, l’incontro con Edward Aveling, suo futuro compagno di vita, la travolge sopprimendo, sul piano privato e personale, i sentimenti di emancipazione e di autonomia che l’avevano resa un’intellettuale tanto promettente nella vita pubblica. Eleanor si fa trascinare da Edward in una relazione che lentamente la annichilisce e in nome del sentimento contravviene al suo impegno di libertà, rivelandosi estremamente vulnerabile e lasciandosi schiacciare progressivamente dall’indolenza dell’uomo sino al suicidio, commesso per avvelenamento all’età di 43 anni. Rispetto all’immagine restituita da una donna atea, femminista e determinata che rinuncia agli ideali di una vita per l’insicurezza infusa da un compagno donnaiolo e spendaccione, la giuria ha individuato un personaggio che, in qualche modo, perde la sua battaglia e non rappresenta dunque un esempio da emulare.

Il secondo film da annoverare tra i “finalisti” è The World to Come, di Mona Fastvold, dalle tematiche molto vicine al recente Ammonite, con Kate Winslet o al celebre Ritratto della giovane in fiamme. La regista racconta l’incontro di due donne che si innamorano nella difficoltà dell’ambiente maschilista e puritano degli Stati Uniti del 1856. Abigail, dopo aver perso la figlioletta per difterite, si culla in una grigia quotidianità scandita da faccende domestiche e lavoro in fattoria insieme al marito. A risvegliarla dal torpore sopraggiunge Tallie, una nuova vicina asfissiata dalla vita coniugale, con la quale stringe dapprima un’amicizia intima e in seguito una relazione clandestina. Come per Miss Marx, la giuria del premio Brian ha constatato come il film rappresenti una plateale sconfitta degli ideali e degli aneliti personali delle protagoniste; The World To Come inscena un vero e proprio ingabbiamento progressivo, una relazione che anziché dissipare il senso di aridità stritola le donne nei meccanismi di una società patriarcale imperturbabile che non lascia loro lo spazio di vivere i propri desideri: Tallie viene infine uccisa dal marito per non aver «adempiuto ai suoi doveri coniugali».

Difficile ritrovare in film come questi lo spirito positivo, persino scanzonato, con cui invece si conclude il nostro Brian di Nazareth, una filosofia di vita a cui amiamo ispirarci nell’affrontare le dure battaglie per la laicità, fischiettando allegramente Always look on the bright side of life.

Paolo Ferrarini e Micaela Grosso


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