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Morire di lavoro. Avanti… c’è posto, verso l’abisso!

Di Giuseppe non sappiamo molto dalle cronache fino ad ora diffuse. Solo alcune scarne righe raccontano di Giuseppe Messina, 36 anni, di S. Pietro Clarenza – un paesino alle porte di Catania -, che, nel pieno del vigore e del percorso esistenziale, sabato, ha abbandonato la vita, con l’uso di una corda appesa ad un lampadario.

Sposato, padre di due figli in tenerissima età, di cinque e quindici mesi.

Un addetto all’edilizia. Un muratore, senza più lavoro da oltre otto mesi. Privo, al di là del sostegno assistenziale della cerchia parentale, degli elementari requisiti economici necessari per far vivere la sua famiglia.

Non aveva più la dignità del lavoro! Quella dignità personale e sociale che permette, con lo svolgimento della sua funzione, di sentirsi un “ingranaggio” prospero e vitale dell’articolato contesto della quotidiana realtà, artefice (unico) del supporto economico della sua famiglia, del percorso di crescita dei suoi figli.

Probabilmente era un lavoratore alla giornata, nel linguaggio “tecnocrate” corrente detto elegantemente precario, come se le necessità sostanziali della vita potessero essere transitorie, oggi si mangia, domani no, tutto a beneficio della “salutifera” dieta.

È facile immaginare che Giuseppe, nella dinamica saltuaria del lavoro, così come tant’altri, uomini e donne, specie nelle aree siciliane e del sud in genere, non avesse avuto nessun supporto temporaneo di ammortizzatore sociale, disoccupazione, cassa integrazione diretta o in deroga o quant’altro ancora di assistenziale. Giusto per cercare di sopravvivere assieme alla sua famiglia, per guardare avanti ancora con fiducia, e non con tragica rassegnazione. Per non toccare l’inutilità dell’essere.

Una tragedia, assieme alle tant’altre che si stanno consumando in Italia in questi mesi proprio per la strutturale mancanza del lavoro, per le drammatiche povertà sempre più dirompentemente crescenti, mentre continua imperterrita da parte di non pochi pezzi della società lo sfoggio della ricchezza e dell’ opulenza, sfacciatamente irrispettosa delle sofferenze.

Eppure, giusto per mitigare lo stato di prostrazione di chi nella fase attuale non ha lavoro e nessuna protezione sociale, e non sono pochi, basterebbe rendere operativo uno strumento economico idoneo di supporto. Già esiste da tempo in molti paesi europei. Al di là della “dizione”, serve urgentemente rendere operativo nel nostro Paese, un reddito universale, un vitale per l’esistenza, o come in qualsivoglia altra maniera lo si intenda chiamare: “reddito di cittadinanza”, “reddito minimo garantito”, “reddito di sopravvivenza”. Se ne discute da parecchi anni ormai, ma tutto ancora dolorosamente tace. È un atto indispensabile, di vera civiltà sociale e democratica, per non fare più incrementare i disperati abbandoni della vita, mentre le rappresentazioni politiche e sociali in maniera vile assistono inerti allo scempio in atto.

Un plauso al buon Landini che nell’iniziativa sindacale nazionale di Roma, lo ha riproposto con grande vigoria.

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