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 Home page > Tribuna Libera > Mi ammazzo perché non so più chi sono

Mi ammazzo perché non so più chi sono

"(…) io per borghesia non intendo tanto una classe sociale quanto una vera e propria malattia" (P. P. Pasolini)

[L’uomo] è [ciò che fa].

Ecco, prendiamo questa affermazione e consideriamola in senso tautologico: l’uomo (sostanza) è ontologicamente proprio ciò che pratica (predicato sostanziale). Eliminare il predicato vuol dire eliminare il soggetto, dal momento che il predicato è non meno soggetto del soggetto, anzi è ciò che salda l’identità, è ciò che rende il soggetto tale, reificandolo. Ora questa identità indissolubile tra chi fa e cosa viene fatto è l’aspetto chiave funzionale all’analisi che si propone l’articolo. L’operaio è ciò che forgia, l’impiegato è ciò che timbra, firma o registra, il negoziante è ciò che vende, l’imprenditore è ciò che produce ecc. Questo che vuol dire? Vuol dire che la crisi economica non è la cagione diretta dei suicidi a cui stiamo assistendo negli ultimi mesi, ma effetto la cui causa riposa in altro; quest’altro è la causa causante, i cui effetti sono la crisi (economico-monetaria) e i suicidi in eccesso. Crisi e suicidi non stanno in un rapporto di causa ed effetto, ma di effetto primo ed effetto secondoIn principio ci fu la crisi, solo dopo i suicidi: non è un caso. La crisi è causa comoda, in quanto mascherante; è falsa coscienza che occulta la totalità organica dello Spirito del proprio tempo (per dirla con Lukacs). Ci si arresta alla parte per eludere il tutto; ma io adesso voglio tentare di scardinare la gabbia del particolarismo e cercare di attingere la totalità. Però non dobbiamo perdere di vista i casi concreti di suicidio; d’altronde è il particolare a rendersi specchio dell’unità sostanziale della nostra epoca.

“Foggia. Si sarebbe suicidato perché oppresso dai debiti contratti con le banche e con i fornitori…”. “Avellino - Un piccolo imprenditore in difficoltà economiche, di 40 anni, si è tolto la vita negli uffici della sua falegnameria…”. “Imprenditore si spara al santuario di Pompei”. "Teramo - Attraversava un difficle momento economico, pare per il pagamento di alcuni debiti: a 49 anni un imprenditore edile di Monteprandone, Ascoli Piceno, si è tolto la vita".“Vicenza - Il titolare di una azienda di autotrasporti del vicentino si è ucciso all'ora di pranzo, impiccandosi nella sua abitazione. «Ho grosse difficoltà economiche e la ditta mi ha rovinato»…”. Foggia, Avellino, Pompei, Ascoli Piceno, Vicenza sono solo alcuni dei casi, ma significativi nel momento in cui mettono in evidenza il fatto che il fenomeno non è circoscritto ad una singola aerea del paese.

L’impossibilità di estinguere il debito contratto con le banche rende impossibile il prosieguo dell’attività ed è la perdita di quest’ultima a costituire la spinta determinante al suicidio. Nei casi citati sono tutti imprenditori, ma non mancano casi in cui ad ammazzarsi siano semplici dipendenti. L’obiezione che mi si potrebbe muovere è questa: la gente si ammazza perché non ha soldi per pagare i debiti, e non perché non ha più il lavoro-identità con cui pagarli. Certo, ma senza lavoro come li pago? L’aumento della pressione fiscale e della richiesta di denaro da parte di chi adesso non può non chiederlo con ostinato cinismo (che è amorale, quindi al di fuori di considerazioni di valore umano) mette in evidenza le contraddizioni dell’epoca: tu (stato, banca, finanza ecc.) mi togli la possibilità di lavorare ed io mi ammazzo perché non ho più nulla in cui identificarmi. Questo spiega l’atteggiamento reazionario e disperato. Minore è l’identificazione, minore è la reificazione, maggiori sono le possibilità di rivolta e di protesta contro la logica alienante dell'equazione di cui sopra ecc. Ecco perché l'autentica possibilità di ribellione può nascere lì dove si vive in una dimensione pre-lavorativa: la scuola e gli studenti. Ma il processo attraverso cui si cerca di rendere la scuola azienda fa sì che lo studio sia vissuto come lavoro e quindi reificante. Non mancano i casi in cui ad ammazzarsi siano neo-laureati impossibilitati a trovare lavoro; ciò proprio a causa dell’assorbimento di una mentalità neocapitalista (e assorbita proprio a scuola) secondo cui se non trovi lavoro sei un fallito. Dittatura del pensiero economico da un lato, dittatura del lavoro dall’altra. La totalizzazione economica della vita va di pari passo con il processo di reificazione che è connaturata al lavoro nel momento in cui il lavoro viene vissuto secondo quell’equazione identitaria riportata all’inizio dell’articolo. L’uomo è il suo lavoro; tipico di una mentalità pragmatica quale quella americana. Ma l’uomo è anche il suo reddito. Ovviamente maggior guadagno vuol dire maggiore reificazione.

Ricapitolando non vale il ragionamento “crisi quindi suicidio”, ma “crisi e suicidio a causa di…”.

La crisi, e questo - se vogliamo - è la positività della negatività, mette in evidenza le contraddizioni del sistema socio-economico in cui viviamo: l’assurda identità alienante di soggetto e oggetto, uomo e lavoratore, uomo e attività ecc.

Quindi qual è la causa causante?

E’ il Capitalismo alienante, qualsiasi forma esso abbia assunto oggi. Questo Capitalismo ha causato la crisi. Questo Capitalismo causa questi tipo di suicidi. Questo Capitalismo aliena l’uomo proiettandolo in altro in cui identificarsi, perché dell’uomo in quanto tale non sa che farsene. D’altronde l’uomo che non sia faber cosa produce?

L’uomo non è concepito più come microcosmo con una sua dignità, come portatore di valori per il solo fatto di essere uomo (e questo è l’aspetto più anti-umanista della nostra epoca), ma assume valore -si badi bene, esclusivamente socio-economico- solo in relazione a ciò che fa. Io valgo se faccio qualcosa, e più questo qualcosa ha valore più valgo. Parafrasando in maniera volutamente distorta Sartre (così come avvenuto nell’interpretazione post-moderna del detto sartriano secondo cui l’uomo è ciò che si fa) posso affermare che siamo su un piano in cui c'è principalmente il fare; non l'esser-ci, non l'essere (cit. Heidegger).

L'uomo fa, quindi è.

Commenti all'articolo

  • Di Armando Bartiromo (---.---.---.55) 28 maggio 2012 17:49

    Area e non "aerea". Mi scuso per l’errore di battitura.

  • Di paolo (---.---.---.89) 29 maggio 2012 09:32

    Armando la tua analisi è lucida come uno specchio ,viviamo in una società drogata dal profitto che anziché essere strumento è diventato il fine ,lo scopo stesso dell’esistenza .Quando poi non solo si perde il profitto ma si intacca l’essenziale è la fine .
    Non è cosi’ per tutti ,ovviamente e fortunatamente , ma è indubbio che il modello sociale di riferimento è questo .

    Ma al posto del tuo " sei ciò che fai " io metterei piuttosto il suo reciproco "fai ciò che sei " perché dietro all’azione c’è sempre l’individuo come tale ,con le sue percezioni ,il senso etico-morale ,la cultura ,l’educazione ecc.........che impongono le scelte e quindi i gesti.
    Perché se puoi scindere ciò che fai da quello che sei realmente ,il viceversa è impossibile .

    Tornando all’esempio dell’operaio (o del burocrate,o .... ) il suo mestiere lo identifica soltanto come qualifica professionale , ma l’uomo è altra cosa .Insomma la pressa o il timbro sono uno strumento per vivere ,ma a casa magari suona il violino o dipinge .

    Se invece commetto un gesto come rubare ,imbrogliare ...oppure donare ,amare ... faccio quello che sono ,diversamente non lo potrei fare. Poi ad essere pignoli si potrebbe confutare che una separazione netta tra le due cose non esiste ,che l’uomo è una macchina complessa ,il risultato di una evoluzione esistenziale sulla quale agiscono fattori esterni condizionanti , ma almeno sulle azioni caratterizzanti io la vedo cosi’.
    ciao

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