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Consumo di carne | Meat Paradox: di come dissociamo la mucca dalla bistecca

Se mangiamo carne di rado pensiamo all'animale dal quale proviene, il che ci tiene in salvo da empatia o disgusto. Un fenomeno che passa anche dalle parole che usiamo.

di Eleonora Degano

Di fronte alla carne lavorata, dunque meno riconoscibile, ci è più facile allontanarci dall’idea di un animale morto e proviamo meno empatia. Lo stesso quando non c’è la testa: l’idea della morte è ben più lontana e l’opzione vegetariana diventa meno attraente. 

SCOPERTE – Quando mangiamo carne, che si tratti di una sugosa bistecca, di salsicce o alette di pollo grigliate, lo facciamo senza pensare all’animale dal quale provengono. C’è chi direbbe che mangiamo in uno stato di negazione, in cui non vogliamo ricordarci come ciò che c’è nel nostro piatto vi sia arrivato. Il che è la logica conseguenza del “come” ci procuriamo da mangiare: arriviamo al banco frigo o macelleria del supermercato e acquistiamo bovini sotto forma di hamburger, polli sotto forma di petti o fettine sottili. Davvero di rado portiamo a casa qualcosa con ancora la testa attaccata o le viscere, perché preferiamo “farcelo pulire”.

Tutto questo è la normalità, oltre a essere un cavallo di battaglia della carne artificiale, ma ha un nome molto preciso: meat paradox. La distanza che abbiamo messo tra il nostro cibo e l’animale da cui proviene. Ed è solo uno degli aspetti ai quali preferiamo non pensare di fronte a una bistecca, ad esempio il rischio cardiovascolare associato a un consumo eccessivo di carne rossa lavorata (quantificato di recente dallo IARC) o il suo impatto ambientale: per produrre un chilogrammo di carne di manzo servono oltre 15000 litri d’acqua, ma questi numeri non sembrano avere un grosso impatto sull’opinione pubblica.

“Il nostro appetito viene influenzato sia da quello che chiamiamo ‘il pasto’ che mangiamo, sia dal modo in cui la carne ci viene presentata”, spiega in un comunicato Jonas R. Kunst della University of Oslo, che insieme alla collega Sigrid Hohle ha condotto cinque studi sull’appetito tra Norvegia e Stati Uniti coinvolgendo 1000 persone. I risultati, guarda caso, sono pubblicati sulla rivista Appetite.

Gli scienziati hanno presentato del pollo ai loro soggetti in tre diverse forme, intero, cosce e filetti, per poi misurare l’associazione con l’animale intero (e vivo) e il livello di empatia o disgusto provocato dalla visione della carne. Nel secondo studio hanno studiato le preferenze sui maiali: hanno mostrato ai partecipanti due immagini di maiali arrosto, l’uno con ancora la testa attaccata e l’altro no. Allo stesso modo hanno misurato associazione col suino vivo, empatia e disgusto, per poi domandare alle persone se avrebbero mangiato volentieri quel piatto oppure optato per un’alternativa vegetariana.

Kunst e Hohle hanno avuto la conferma che di fronte alla carne lavorata, dunque meno riconoscibile, ci è più facile allontanarci dall’idea di un animale morto e proviamo meno empatia. Lo stesso quando non c’è la testa: l’idea della morte è ben più lontana e l’opzione vegetariana diventa meno attraente. Risultati analoghi sono arrivati dal terzo studio, in cui le immagini erano pubblicità di costine d’agnello. L’una mostrava anche l’agnello vivo, l’altro no: alla vista della prima, i partecipanti erano molto meno propensi all’idea di mangiare carne.

Questo meccanismo è descritto dall’ipotesi della dissociazione, che Kunst e Hohle hanno scelto di dimostrare empiricamente partendo da uno degli argomenti più caldi degli ultimi decenni: il mangiare carne. Hanno trovato proprio quello che si aspettavano sia nei primi tre studi, in cui si sono concentrati sul grado di lavorazione e sulla presentazione della carne, sia quando negli ultimi due hanno spostato l’analisi sull’uso delle parole. Sostituendo le parole ‘pork’ e ‘beef’ dei menu con ‘pig’ e ‘cow’ (carne suina e carne bovina con maiale e mucca) si sono resi conto che le persone erano molto meno interessate a mangiare carne.

Una conferma ulteriore è venuta dalla scelta del verbo harvest, letteralmente raccogliere, mietere, che negli Stati Uniti è sempre più usato al posto di kill (uccidere) o slaughter(macellare). E a ragione: di fronte al termine harvest, associato più alle piante che agli animali, le persone provano meno empatia. “I risultati scientifici supportano quanto affermato da alcuni filosofi e attivisti per i diritti degli animali, ovvero che il modo in cui si parla di carne e il modo in cui ci viene presentata nella nostra cultura fanno sì che ne consumiamo di più”, commenta Kunst.

Il meat paradox è solo uno degli aspetti legati al consumo di carne che la scienza sta cercando di indagare. Nell’ambito della psicologia (nello specifico la psychology of exploitation) e delle neuroscienze si è cercato di capire se l’orientamento politico possa influire sui gusti alimentari, nello specifico sulla tendenza a mangiare carne e a definirsi orgogliosamente un meat eater. Vari studi condotti negli Stati Uniti, già alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, hanno concluso di sì: le persone più conservatrici o repubblicane tendono a mangiare carne più di quanto facciano quelle liberali. I due motivi generali identificati dai ricercatori negli ultimi anni suonano abbastanza tranchant e hanno molto a che fare con l’ideologia: prima di tutto i repubblicani percepiscono l’alimentazione vegetariana o vegana come una minaccia alla tradizione culinaria, nonché si sentono in diritto di mangiare animali per una presunta superiorità della specie. Non potrebbe semplicemente trattarsi del fatto che ai simpatizzanti di una certa ideologia piace di più il gusto della carne? Secondo alcuni scienziati no, perché si ottengono gli stessi risultati anche dopo aver rimosso statisticamente il fattore “gusto”.

@Eleonoraseeing

Crediti immagine: smilingpixel, Pixabay

Questo articolo è stato pubblicato qui

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