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Mazen Darwish parla la lingua della libertà

Mazen Darwish

(di Yara Badr, per The Guardian. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio).

Ho incontrato per la prima volta Mazen Darwish, mio marito, tramite amici in un caffè di Damasco nel settembre 2009. Ci siamo messi a lavorare a un progetto sulla censura culturale in Siria, ma il progetto non ha mai visto la luce. Era ancora in corso di definizione nell’ufficio di Mazen nel Centro siriano per i media e la libertà di espressione (Scm), fondato a Damasco nel 2004, quando questo è stato preso d’assalto dalle forze dell’intelligence la mattina del 16 settembre 2012.

Quando ho incontrato Mazen per la prima volta, era arrabbiato per il fatto che le sue sedi erano state chiuse già due volte, ma con anni di esperienza di lavoro in Siria e con la sua conoscenza delle leggi che regolano il mestiere dei giornalisti, aveva imparato come tenere a bada quella rabbia e trasformarla in energia per costruire.

Mazen ha una determinazione incredibile. Durante il nostro secondo incontro qualche giorno dopo, mi ha parlato dell’idea dietro al progetto e dei suoi obiettivi: era di nuovo in piedi, ancora una volta un piantagrane.

“Piantagrane”. Così descriviamo una persona che fa qualcosa di cui è in pieno diritto ma che è vietata in Siria. Si può essere un piantagrane dei media, o un piantagrane politico. Potrebbe trattarsi di nient’altro che un commento sarcastico fatto in pubblico, dato che anche la nostra audacia linguistica ha dei limiti, imposti su di noi nei decenni.

Ma Mazen non è come molti di noi, che cercano di integrarsi all’interno di questa società oppressa così com’è. Mazen si fida degli altri, chiunque siano, e questa fiducia affonda le radici nella sua convinzione che non sta facendo nulla che sia da tenere segreto. La maggior parte di noi vede gli altri, chiunque siano, come gente che potrebbe stilare un rapporto ai servizi di sicurezza sostenendo che hai detto qualcosa – e ciò vuol dire che potresti essere fatto sparire.

Mazen parla in una lingua che forse solo una minoranza dei siriani comprende, una lingua il cui dizionario contiene parole come diritti umani, diritto di informazione e libertà di opinione e d’espressione. Per la maggior parte dei siriani nel 2009 tali concetti appartenevano forse a qualcun altro, o magari se ne parlava in un film. Erano prodigiosi e surreali per la maggioranza, la quale aveva letto che la costituzione siriana tutela la libertà di opinione ed espressione, ma che aveva dimenticato questa riga e cosa voglia dire in un Paese in cui le storie delle persone scomparse si stanno moltiplicando.

In cuor nostro forse sapevamo tutti che sarebbe accaduto a Mazen, di certo lui non è un’eccezione. Secondo il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite, Mazen è scomparso in maniera forzata per nove mesi, periodo in cui ha subito pesanti torture, e in seguito è stato trasferito nella prigione centrale di Damasco, Adra. Ora che per Mazen sta per trascorrere il suo terzo anno di detenzione, le autorità hanno improvvisamente deciso di trasferirlo nella prigione centrale della città di Hama. L’accusa? “Propaganda di atti terroristici”, nell’ambito dell’articolo 8 della legge anti-terrorismo – emessa in un momento ad hoc, non molto dopo l’arresto di Mazen. Sarà processato nel tribunale anti-terrorismo, un tribunale speciale istituito dopo il suo arresto.

L’imputazione presentata dal pubblico ministero dice che le attività del Centro siriano per i media e la libertà di espressione miravano a “destabilizzare la situazione interna in Siria, per far sì che le organizzazioni internazionali condannassero la Siria nei forum internazionali”. Queste attività comprendevano la pubblicazione online di informazioni di monitoraggio, la diffusione di rapporti sui diritti umani e la condizione dei mezzi di informazione in Siria, la raccolta dei nomi delle persone detenute, disperse o uccise nel corso del conflitto siriano.

In Siria tutto è vietato eccetto l’elogio: o stai con noi, o stai col nemico. La nazione è intimamente connessa alla sicurezza che viene determinata da pochi uomini.

L’8 marzo del 1963 è stato dichiarato nel Paese lo stato di emergenza: le riunioni sono state vietate, le opinioni politiche sono state vietate e il giornalismo – di conseguenza e necessariamente – è stato vietato.

Mazen ha rifiutato tutto ciò, credendo fermamente che “arriverà un giorno in cui nessun gruppo, governo o regime potrà avere il monopolio sulla verità, potrà nascondere la verità o anche solo oscurare un singolo aspetto della verità, anche in tempi di cortine di ferro, ideologie unilaterali e società chiuse”. Mazen non è stato solo un giornalista molto efficace, nonché uno dei più etici. È stato anche qualcuno che ha ricordato le azioni compiute da tutti i difensori del giornalismo e dei diritti umani.

Il giornalista americano Edward R. Murrow non ha forse sfidato il maccartismo? Non ha difeso le libertà tutelate dalla costituzione degli Stati Uniti, sostenendo che quelle libertà devono avere la precedenza sulla sicurezza nazionale?

Il mondo non si è da poco unito in solidarietà con la rivista satirica francese Charlie Hebdo, quando è stata vittima di un brutale attacco organizzato in cui quattro dei suoi vignettisti sono stati uccisi?

Proprio alla fine del film Il grande dittatore, proiettato per la prima volta il 15 ottobre 1940, Charlie Chaplin dice nel suo famoso discorso: “Tutti vogliamo aiutarci l’un l’altro. Gli esseri umani sono così… Ma abbiamo perso il cammino… Abbiamo sviluppato la velocità, ma ci siamo chiusi dentro. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà. La scienza ci ha trasformato in cinici. L’avidità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari, ci serve umanità… E anche se gli uomini muoiono, la libertà non perirà mai”.

In ogni nazione c’è un qualche Charlie Hebdo, in ogni epoca ci sono quelli che lottano per l’umanità, chi rifiuta di nascondersi dietro uno scudo di silenzio, chi lotta in favore di Mazen Darwish e di altri giornalisti, ovunque si trovino.

Nessuna delle parti in conflitto in Siria riconosce la parola “stampa” come un segno internazionale che indica che i giornalisti devono essere protetti. Eppure noi, in cambio, ci rifiutiamo di essere parte del loro grande gioco e resteremo ai lati, ai margini. La meccanizzazione ha trionfato sull’umanitarismo, la politica ha prevalso sui diritti umani, ma nessuno può reprimere il potere dei margini.

Con le parole resisteremo a questa realtà come prigionieri del tempo, perché quando ci ergiamo in favore di individui in casi come questi, ci ergiamo per l’umanità, e per un’idea che non perirà mai. (The Guardian)

Questo articolo è stato pubblicato qui

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