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"Mare chiuso" e la ”fatwa” degli annegati

Mare chiuso” è un eccelso documentario di Andrea Segre e Stefano Liberti, proiettato nella mia città a cura di alcune associazioni.

Gli “attori” diretti, nella veste degli intervistati, sono i migranti che, dopo drammatiche e perigliose vicissitudini per cercare di superare il Mediterraneo e forzatamente riportati indietro, in Libia, ora si trovano in Tunisia, a Shousha, in un campo profughi gestito dall’Unchr, Agenzia dell’Onu per i rifugiati. Il Campo, che ospita 3300 persone, in pieno deserto tunisino, a brevissima distanza dalla Libia, è stato impiantato il 24 febbraio 2011 e cofinanziato dal governo italiano a seguito degli accordi definiti tra il ministro Maroni e il governo provvisorio tunisino, per i migranti in fuga dalla Libia. Molti degli “abitanti” del Campo sono reduci dei respingimenti, che hanno interessato circa 2000 persone, effettuati dalle navi italiane dal maggio del 2009, e riportati in Libia. La gran parte di questi esseri umani provenivano da aree di guerra, specie dal centro Africa, richiedenti asilo. L’obiettivo era di non riconoscer lo status di rifugiato.

Nel documentario, gli “attori” non partecipanti - rimangono solo sullo sfondo con alcune dichiarazioni o apparizioni - sono alcuni personaggi che fino a non molti mesi addietro ricoprivano ruoli politici di primissimo piano: Muammar Gheddafi - Rais, Silvio Berlusconi – Presidente del Consiglio, Roberto Maroni –Ministro degli Interni.

L’operazione respingimento, codificata da un accordo siglato con Ghedaffi, raccontata molto bene nelle drammatiche testimonianze, consisteva nel bloccare i barconi, fermi in mare per richiesta d’aiuto o in movimento, trasbordare i migranti, uomini, donne, bambini, sulle navi militari senza identificazione, riportandoli in Libia, dopo avere applicato, nel caso di tentativo di resistenza, “vigorose” azioni di convincimento. Poi, prelevati dai militari libici, rinchiusi nei fondi delle loro galere. Molti degli intervistati dichiarano di essere stati torturati, in diversi sono morti. Si riferisce anche di altri che, dopo una fuga riuscita dal luogo della detenzione, hanno tentato di nuovo la traversata del Mediterraneo, e poi sono morti in mare, per fame, sete, annegamento.

Gli intervistati raccontano le tragedie vissute in lingua madre; i racconti sono sottotitolati in italiano.

Sono narrazioni che nel mettere a nudo le tremende crudeltà subite, colpiscono il cuore e “annebbiano” la mente. Tra le parole scorrono le crudeli immagini dal “vivo” registrate direttamente dai migranti con i cellulari

Respingimenti effettuati contro le regole, le norme e i trattati internazionali che prevedono assistenza per i rifugiati e l’accoglimento della richiesta d’asilo.

I fatti narrati da “Mare Chiuso” si riferiscono agli eventi consumatosi il 6 maggio 2009.

Da un barcone, in grave difficoltà nel mare Mediterraneo, con 200 somali ed eritrei, parte l’allarme. Arrivano i militari a portare soccorso, poi a seguito di una telefonata, vengono caricati su una nave militare più grande e riportati in Libia.

Però, la “mano lunga” della giustizia provvede, prima o dopo, come bene evidenziato con le immagini e le voci nel documentario. Il 16 febbraio, la Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo, a seguito del ricorso avviato da un gruppo di migranti, ventiquattro, che vissero la tragica ritorsione, ha condannato l’ Italia per non avere rispettato l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, che riguarda il “trattamento degradante e la tortura”. In più, a 22 delle vittime viene riconosciuto un risarcimento di 15.000 euro.

Pertanto, mai più respingimenti.

E’ ragionevole supporre che molti migranti, in procinto di morire, per fame, sete o annegamento, a seguito degli avvenimenti narrati, prima di spirare l’ultimo respiro, nello strazio più lancinante, abbiano rivolto un “pensiero” agli artefici della loro morte, una vera e propria fatwa.

Lo “strale” è arrivato, forte, veloce e puntuale.

Nessuno di quei Lor signori si trova più in “sella” di comando.

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