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Mafie, tra globale e locale: criminalità alla conquista di spazi urbani e la smart resilience

Guido Casavecchia, studente di Giurisprudenza dell’Università di Torino, ha intervistato il professor Fabio Armao all’interno delle attività di formazione e divulgazione circa il fenomeno mafioso del comitato Antimafia Channel, di cui è membro.


Fabio Armao è Professore Ordinario dell’Università di Torino, politologo esperto di criminalità organizzata, processi di globalizzazione, politica e sicurezza urbana. Già docente del Master in International Crime and Justice dell’UNICRI a Torino, e del Master in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione di Pisa. E’ titolare di un corso di Urban Security presso l’Università di Torino e di Guerra e terrorismo presso la Scuola di Studi Superiori Ferdinando Rossi di Torino.

Professor Armao, nel suo libro “Il sistema mafia, dall’economia-mondo al dominio locale” compara i sistemi economici e i sistemi mafiosi, in che modo?
Nell’arco di 60 anni, circa, certi fenomeni da aree della Sicilia, della Cina o del Giappone, hanno avuto un’espansione globale immensa. Oggi è praticamente impossibile trovare paesi senza problemi di criminalità organizzata, il che vuol dire che giocano un ruolo anche economico. Ho cercato di spiegare questo rapido successo nei termini di Fernand Braudel circa i traffici su lunga distanza. La criminalità organizzata svolge un lavoro simile a quello delle compagnie commerciali del ‘600-‘700 (una volta commerciavano caffè e tè, oggi droga, armi, esseri umani). Sono gruppi che mettono in comunicazione vari punti del globo trasportando merci e denaro che nel punto d’origine hanno una valore bassissimo, ma nel punto di arrivo assumono un valore esponenzialmente alto. In questo modo arricchiscono una serie di attori che si pongono lungo questa catena commerciale: i produttori locali, l’organizzazione che raffina il prodotto, chi lo commercializza e i grandi hub (come la ‘ndrangheta) che lo raccolgono e lo distribuiscono.

Come coniugano la diffusione dei loro clan in tutto il mondo, al pari delle multinazionali, con il mantenimento di un controllo locale forte?
Riescono a coniugare locale e globale molto bene, perché hanno bisogno di ripulire il denaro, entrando nel mercato legale con attività di copertura: negozi, concessionari, bar, ristoranti e prestanome per i depositi bancari. Per questo servono una serie di figure professionali (broker, esperti di finanza, banchieri) per svolgere competenze che i mafiosi, di per sé, non hanno. Così le mafie giocano un ruolo sul territorio, perché devono sempre mantenere un controllo nel loro bacino di influenza, aumentare gli appartenenti all’organizzazione e diversificare i loro servizi illeciti, avvalen- dosi di soggetti esterni.

Nel suo libro compara le mafie a dei soggetti statali. Qual è il rapporto tra mafia e Stato?

Non ho mai condiviso l’idea di mafia come anti-stato, perché in realtà vive all’interno dello Stato, come un parassita. Ciò è ancor più evidente dallo studio della forma del clan come forma sociale, e associativa. Il modello clanico, che sicuramente è promosso dalle organizzazioni criminali, ma che si è esteso anche ad altri contesti (politico ed economico) ha avuto un ruolo centrale nella formazione dello Stato moderno. Questo nasce sì come accentramento di risorse militari, burocratiche e giudiziarie, ma si è dato per scontato che fossero stati soppiantati i clan. Anche la storia economica sostiene che la nascita del capitalismo vada di pari passo con la crisi dei gruppi clanici-familistici. Però oggi assistiamo al ritorno del modello clanico, che in realtà, è sempre rimasto sotto traccia. Ad esempio Kathleen Collins, studiando i gruppi politici nell’area caucasica dopo il crollo del muro di Berlino, dimostra che negli stati dell’ex Unione Sovietica sono rinati i clan politici, mai del tutto scomparsi. Anche nella Cina comunista i clan a base familiare, al livello locale di gestione dell’amministrazione pubblica, non erano mai scomparsi, anzi si erano infiltrati nel partito comunista, adottando una serie di pratiche familistiche di gestione. Non sempre si tratta di una famiglia di sangue. Spesso si basano su legami di amicizia e interesse. Questo è esattamente ciò che succede anche all’interno delle organizzazioni mafiose. Così possiamo capire la loro solidità, la forza dei loro legami e la diffusione della corruzione politica (spesso legata a gestioni amministrative che ruotano attorno ad amicizie e favori familiari).

Quali rapporti esistono tra mafia e terrorismo?

Esistono relazioni interessanti da un punto di vista criminologico e storico, perché si hanno due gruppi che operano sullo stesso territorio e con la stessa struttura (anche se non sono chiamati clan ma cellule terroristiche). Le nostre vecchie organizzazioni terroristiche europee erano abbastanza verticistiche, delle cellule separate che non si conoscevano tra loro, così da mantenere un certo livello di sicurezza. Oggi, invece, ci sono organizzazioni terroristiche di “ultima generazione” come Al Qaeda o ISIS che sono sparsi, con capi carismatici più come elemento di guida spirituale che non organizzativi. Ma il fatto che siano organizzazioni che si basano su strutture di tipo classico, rende compatibili la criminalità organizzata e il terrorismo. Ad esempio alcuni gruppi terroristici dell’ETA o dell’IRA, dopo il processo di pace e la smobilitazione dei settori armati, si sono trasfor- mai in gruppi criminali organizzati. Hanno passato quasi tutta la vita in clandestinità e godono già di competenze criminali come il controllo del territorio o l’esercizio della violenza. Lo stesso è successo con i gruppi di guerriglia latino-americana che dagli anni ’80 si finanzia con il narcotraffico. L’ISIS fa lo stesso con la vendita di armi, il traffico di esseri umani, o di reperti archeologici. Ciò è accaduto anche a Roma. A seguito dell’indagine Mafia Capitale è stato scoperto un network criminale composto da una vecchia parte della destra eversiva e un mix di camorristi e mafiosi siciliani.

Lei insegna i fenomeni criminali anche all’interno di un Dipartimento di Urbanistica: come si rapporta la criminalità con lo spazio urbano?

L’idea tradizionale di sicurezza urbana muove dal presupposto che esistano dei nemici all’esterno della città (c.d. sindrome della fortezza assediata) e che si possano contenere costruendo muri e aumentando la video sorveglianza. Ma questa idea di securitizzare un condominio o un quartiere, crolla di fronte alla criminalità organizzata, che per definizione si trova all’interno del tessuto sociale. Una prospettiva diversa deriva dalla constatazione che esistono vari aspetti della tecnologia che possono essere utili per capire come la criminalità organizzata operi, cercando di intervenire in funzione preventiva, non solo ex post.

Ad esempio con il Politecnico di Torino abbiamo in progetto una ricerca di monitoraggio del territorio innovativa. Partendo da banche dati che già esistono (a livello comunale, provinciale o presso le Camere di Commercio) si può mappare la città individuando luoghi considerabili snodi del riciclaggio di denaro (sale slot, money transfer, compro oro). Le tecnologie 3D, partendo dalle banche dati delle licenze commerciali, ci permetterebbero di costruire un modello di analisi utilizzando vari indicatori che possono essere rivelatori di possibili infiltrazioni criminali: il valore degli immobili, la frequenza del cambio di gestione o le ristrutturazioni. Se avessimo un algoritmo che ci dicesse qual è il ricambio normale di un bar e se ci si accorge che in alcuni locali questo valore è superiore alla media, questo allarme potrebbe essere trasmesso alle autorità di polizia competenti, per inda- gare in modo più mirato.

Che rapporto esiste tra criminalità giovanile e spazio urbano?

Le gang giovanili sono un possibile bacino di reclutamento di futuri criminali delle organizzazioni mafiose o di cellule terroristiche. Sono la dimostrazione che esiste un fenomeno criminologico molto diffuso, spesso collegato all’abbandono scolastico e che è intrinsecamente collegato a come costruiamo le città per i nostri ragazzi.

A Torino esiste un’unità della polizia municipale, specializzata nei nuovi social media, che ha elaborato un’app per monitorare un certo tipo di messaggi su Facebook o Twitter degli adolescenti che si danno appuntamenti via social organizzando scontri tra bande o compiendo atti di cyber bullismo. Così la tecnologia può avere una funzione utilissima anche di prevenzione, di allerta, non solo di repressione ex post a scopi investigativi.

Che cos’è la resilience urbana?

E’ una forma di risposta alla violenza cronica nel tessuto urbano, alle gang giovanili. E’ applicabile anche ai casi di infiltrazioni della ‘ndrangheta in molte cittadine della provincia piemontese, nel suo tessuto amministrativo, con un carattere capillare, silenzioso ma con effetti devastanti. Per reagire si può utilizzare il concetto di resilienza, che vuol dire non soltanto creare muri difensivi, ma gli anticorpi dell’organismo.

Ad esempio Medellin, città colombiana capitale del narcotraffico mondiale, è diventata più sicura grazie a progetti urbanistici molto innovativi, che hanno collegato il centro città con le periferie, usando una funicolare. L’architetto Giancarlo Mazzanti, inoltre, ha progettato la Biblioteca de Espana come luogo di aggregazione, meta di turismo e opportunità per entrare in un circuito virtuoso di piccola economia, servizi per i residenti e i turisti.

Quali esempi virtuosi abbiamo a Torino?

Nel 2016 ho presentato Skate Park Italy, un progetto dell’Alta scuola politecnica di Torino e Milano. Se si vuole riconquistare un quartiere si possono realizzare impianti utilizzabili dai ragazzi, come le piste da skateboard. Nel nostro caso le abbiamo progettate ecosostenibili, con materiali riciclati e che ricavassero energia per l’illuminazione serale dal movimento delle tavole. Sono anche modulari, cioè facilmente trasportabili in altri luoghi, e con spazi circostanti per le persone anziane. Alcune circoscrizioni, però, purtroppo, hanno declinato la proposta risolvendo il problema del degrado e dello spaccio di sostanze stupefacenti con delle videocamere. Vanno bene, ma lo spacciatore non si metterà lì sotto e comunque potranno essere danneggiate. Così non ci si riappropria del territorio. Noi volevamo affiancare la riqualificazione di quelle piazze e giardini a servizi, attività e corsi per i ragazzi, per far vivere il loro territorio.

In conclusione le mafie dimostrano una grande capacità di infiltrazione, nel tessuto economico e urbano delle nostre città, mantenendo comunque un carattere transnazionale. L’uso della tecnologia nell’urbanistica e contro la criminalità può permettere di connettere le persone, segnalare problemi e disservizi, oltre ai singoli crimini. La fortezza vuol dire che il pericolo è fuori e che ci si barrica all’interno. La resilienza, invece, vuol dire vivere in quel territorio e cercare di valorizzarlo, anche contro la criminalità.

                                                         Guido Casavecchia 

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