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Le “partigiane curde”, un utilizzo semplificato e ideologico delle informazioni

Il secondo di due pezzi, vuole analizzare il racconto che viene fatto della donna nelle forze rivoluzionarie curde e come la sua figura venga semplificata e spesso riprodotta attraverso la lente ideologica (nel primo pezzo si è parlato del modo in cui viene raccontata la resistenza curda a Kobane). La solidarietà internazionale verso i curdi deve prescindere dall’identità etnica e valere per tutti i popoli che combattono l’oscurantismo sia esso laico, religioso o ideologico.

 

(di Alberto Savioli, per SiriaLibano)

L’attacco dello Stato islamico contro Kobane ha scatenato in Italia manifestazioni, cortei, conferenze e dibattiti come non se ne sono mai visti per il popolo siriano in generale durante quattro anni di conflitto. Tre sono i temi ricorrenti: la “resistenza”, “contro il colonialismo occidentale”, le “donne combattenti e libere”. I titoli scelti sviluppano questi temi: “Viva la resistenza di Kobane”, “Kobane or Isis, resistance or barbarism”, “A fianco della resistenza curda contro l’Isis e il colonialismo occidentale”, “Con Kobane e il Rojava che resiste”, “Kobane non è sola”, “Kobane nel cuore”, “Kobane ovunque, ovunque resistenza”, “#Savekobane”, “Kobane calling”, “Kobane non è sola”, “8 marzo, libere dalla paura libere di essere” (in solidarietà con le donne curde di Kobane).

Il fenomeno della donna combattente, che riporta l’immaginario collettivo al tema delle Amazzoni è molto affascinante, soprattutto in una società come la nostra non ancora svincolata dal machismo e maschilismo strisciante. Io stesso non sono immune da questo fascino.

Circa tre settimane fa mi trovavo ospite in un campo di guerriglieri del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan “turco”, il braccio armato in realtà sarebbe l’Hpg o Forza di difesa popolare) nel nord dell’Iraq (Kurdistan meridionale). Questi combattenti del “ramo turco” vengono ospitati nel territorio iracheno della Regione autonoma del Kurdistan (Krg) nonostante le pressioni di Ankara.

10671367_1599900483576642_2857473490733191394_nAveva appena nevicato e fui invitato a scaldarmi accanto alla stufa all’interno di una tenda, alle pareti erano appese bandiere del Pkk e dell’Hpg, fotografie dei loro martiri e del leader del movimento Abdullah Ocalan che loro chiamano col diminutivo Apo. Alcune ragazze vestite con la mimetica, i capelli intrecciati e il foulard nero a fiori colorati mi si sedettero accanto, prima incuriosite dalla mia presenza poi per raccontarmi la loro lotta quotidiana.

Questa parità di genere che affascina l’occidente come esempio di libertà e indipendenza della donna curda necessita di precisazioni. Questo tipo di parità è solo parziale, in quanto la donna rimane quasi sempre in posizione subordinata rispetto ai combattenti di sesso maschile, inoltre è tale solo all’interno dei gruppi combattenti.

Con ciò non voglio dire che la donna curda sia sottomessa, ma che nei villaggi della Siria araba non ho notato differenze di status rispetto alla donna curda dei villaggi siriani o iracheni. Lo spazio di autonomia delle donne in quest’ambito rurale è dettato dalla consuetudine e dalla tradizione, non dal fattore etnico.

Dilar Dirik, un’attivista curda con un dottorato di ricerca all’Università di Cambridge, ha sottolineato come i media tendano a fotografare e intervistare le combattenti più belle, inoltre come il fenomeno (in occidente) delle donne curde combattenti “vada di moda” e sia presentato come un fenomeno da romanzo perché fa da contrappeso al preconcetto della donna orientale oppressa. Continua la studiosa “la mia generazione è cresciuta considerando le donne combattenti come un elemento naturale della nostra identità”, tuttavia “sarebbe esagerato definire la società curda paritaria, considerando la prevalenza del dominio maschile e la violenza”.

10386291_524954024310134_7277968731678625406_nOgni gruppo combattente curdo ha la sua unità femminile, i curdo-siriani dell’Ypg hanno il corrispettivo femminile nell’Ypj (Unità di protezione delle donne; una pagina facebook e un video mostrano la loro quotidianità) che è stata istituita nel 2012, il Pkk turco (o meglio l’Hpg) ha il suo corrispettivo nell’Yja-Star (Unità delle donne libere-Stella), l’Yrk iraniano (Unità di difesa del Kurdistan dell’est) nell’Hpj (Forze di difesa delle donne).

Quando lo scorso agosto l’Isis sembrava essere sul punto di sbaragliare le forze peshmerga ed arrivare fino a Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno, mi trovavo a Kalak pochi chilometri dalla linea del fronte, anche in quell’occasione arrivarono pullman di giovani ragazze da Suleymaniyah pronte a combattere in prima linea, altre arrivavano dai campi del Pkk più a nord o dalla Siria.

Secondo le dichiarazioni di Redur Xelil, portavoce dell’Ypg, le donne dell’Ypj siriano che combattono in Siria sono circa 15.000, rappresentano il 35% di questa forza combattente.

Molti di quelli che sostengono la lotta di liberazione/resistenza curda e ammirano la figura della donne nelle unità combattenti, hanno sostenuto la dittatura di Asad e i loro alleati regionali, gli ayatollah iraniani, definendo le manifestazioni di piazza del 2011 un “complotto esterno”.

Sono interessanti a riguardo proprio le parole di Axîn Maku, membro del consiglio militare delle Forze di difesa delle donne (Hpj), l’unità combattente femminile del ramo iraniano costituita nel 2014: “Non vediamo alcuna differenza tra la Repubblica islamica dell’Iran e lo Stato islamico. Entrambe queste organizzazioni opprimono le donne e hanno una cultura di odio e di violenza; e se dobbiamo usare la forza per far progredire i nostri interessi di donne, lo faremo”.

Il sostegno e l’ammirazione occidentale per le donne curde che imbracciano il fucile mascherato da fenomeno libertario e parità di genere, a mio avviso si inserisce in un culto tutto maschile della guerra, della donna forte e con gli stessi diritti là dove svolga il ruolo degli uomini.

Non si spiega altrimenti la poca attenzione data dai media invece alle donne arabe e curde siriane, intellettuali, giornaliste, studentesse, o semplici elementi della società civile siriana, che da 2011 si sono ribellate in modo pacifico al regime siriano e che ne hanno denunciato le violazioni subendo il carcere, le torture o la violenza sessuale.

Immagine3Pochi articoli, poche manifestazioni e conferenze sono state fatte nei “circoli di sinistra”, se non è stato addirittura steso un velo di silenzio sulle storie di molte siriane coraggiose come Rima Dali e le sue tre amiche, arrestate nel 2012 per aver manifestato vestite da sposa con un drappo rosso con su scritto “Per il bene dell’essere umano siriano la società civile annuncia la fine di tutte le operazioni militari in Siria” (foto a destra).

Chi ha mai letto di Fatima Saad, morta a seguito delle torture subite in carcere dove era stata portata perché nel suo cellulare erano state trovate fotografie della bandiera dell’indipendenza.

Chi ha mai sentito parlare delle “libere donne di Enkel”, o di Maissa e Samar Saleh, due sorelle arrestate rispettivamente dal regime e dallo Stato islamico.

NRazan Ghazzawion sono stati consumati fiumi di inchiostro per Razan Zaituneh insignita di numerosi premi (Anna Politkovskaya nel 2011, l’International Women of Courage Award nel 2013, la cerimonia al Giardino dei Giusti di Milano il 6 marzo 2015) per il suo attivismo a favore della popolazione civile siriana. Razan è stata sequestrata dai fondamentalisti nella Ghouta, dove si era recata per denunciare le atrocità che stavano avvenendo.

Non ha scatenato indignazione di massa la storia di Alaa e di tutte le donne violentate ripetutamente nella prigioni di Asad per confessare crimini che non avevano commesso (123).

A chi non si occupa esclusivamente di vicende siriane è sconosciuta la storia dell’attivista Majd Izzat al-Chourbaji e Rima Fleihan, di Razan Ghazzawi la blogger arrestata per essersi espressa in modo critico verso il regime, o le denunce verso il regime delle famose attrici siriane May Skaf (12) e Fadwa Suleiman o della giornalista Zeina Erhaim che quotidianamente twitta da Aleppo quanto accade.

Anche loro, come le combattenti curde, sono donne libere, emancipate e rivoluzionarie. Eppure non trovano spazio nella retorica maschilista, sulla stampa nazionale, nelle conferenze che settimanalmente hanno come tema Kobane e la resistenza della donna curda.

Sempre secondo l’attivista curda Dilar Dirik, che ha analizzato la rappresentazione delle combattenti curde nei media, le donne che combattono contro Asad e contro lo Stato islamico lo fanno con un duplice scopo, per la libertà come curde e come donne. I media, invece che cercare di capire il fenomeno in tutta la sua complessità lo riducono agli elementi sensazionalistici. La lotta della donna curda “partigiana” è anzitutto una lotta culturale come affrancamento da una società fondamentalmente maschilista e patriarcale (matrimoni precoci o forzati, delitto d’onore, violenza domestica).

Lo stesso tipo di lotta culturale viene combattuta senza armi dalle attiviste arabe siriane o dalle curde impegnate nella ricostruzione della società civile (12). Queste donne, attive al pari degli uomini e più degli uomini non trovano spazio nella retorica dei media occupata a celebrare solo la donna combattente.

Allo stesso modo, la resistenza del Rojava all’oscurantismo dello Stato islamico ha eclissato le tematiche relative ai processi democratici nel Rojava stesso.

Sorprenderà molti apprendere che nonostante il fenomeno dell’arruolamento delle donne curde in prima linea sia presente anche nel Kurdistan iracheno, proprio in questo paese è diffusissima una pratica di violazione e annullamento della donna che tutti associano esclusivamente all’Africa sub-sahariana: la mutilazione genitale femminile.

Le mutilazioni vengono praticate generalmente su ragazze e bambine in una fascia di età compresa tra i 4 e 12 anni (da parenti o vicine) con strumenti non sterilizzati e senza anestesia.

Uno studio scientifico condotto nel 2010 ha evidenziato come la pratica sia diffusa nel Kurdistan iracheno con una percentuale del 72%: nel governatoratImmagine4o di Germyan l’81,2% delle donne ha subito questa pratica, nel governatorato di Suleymaniyah il 77,9%, nel governatorato di Erbil il 63%. Da questo studio è rimasto escluso il governatorato di Dohuk , tuttavia ci sono indicazioni che qui questa pratica abbia una diffusione minore del 10%.

La mutilazione genitale femminile (Fgm) è stata ufficialmente bandita e considerata illegale nel 2011 dal parlamento regionale del Kurdistan; attualmente la pratica è in regressione e sembra che meno del 50% delle ragazze venga mutilata.

Secondo il sito che si occupa della campagna di sensibilizzazione “Stop FGM in Kurdistan” dell’organizzazione tedesca WADI, si tratterebbe di una pratica “musulmana sunnita”, nel Medio Oriente è diffusa soprattutto nelle aree a maggioranza curda.

Uno studio condotto nel 2010, sempre da WADI mostra come nell’area di Kirkuk la pratica abbia una diffusione del 38%. Guardando alla componente etnica di questa percentuale, il 65,4% è costituito dalle donne curde, il 25,7% dalle arabe e il 12,3% dalle turkmene. La componente religiosa e confessionale indica per questa provincia una diffusione tra i sunniti (sommando curdi e arabi) del 40,9%, tra gli sciiti del 23,4%, tra i kaka’i del 42,9%, e nessuna percentuale tra i Caldei e i gruppi cristiani.

Tuttavia in paesi africani come il Benin, il Camerun o il Ghana la percentuale di donne cristiane mutilate è molto superiore alle donne musulmane o di altre religioni animiste, questo fatto sta a indicare che la pratica non è da attribuire all’Islam ma alla consuetudine e alla tradizione locale.

Anche in Iran, nonostante non ci siano percentuali ufficiali (sembra attorno al 60%), la pratica sarebbe maggiormente diffusa nelle province nord-occidentali dell’Azerbaijan iraniano, nel Kurdistan iraniano, a Kermanshah, nell’Elam, e nell’area di Hormuz.

11046912_524281987710671_7210527854466853752_nIl racconto dei fatti siriani e iracheni viene sempre filtrato da letture ideologiche, parziali o decifrato tramite clichè ben precisi e consolidati nell’immaginario collettivo, senza una attenta e accurata analisi di fatti e situazioni specifiche.

Citando Leila al-Shami su Osservatorio Iraq, non vorrei che il sostegno a Kobane e l’ammirazione per la donna partigiana curda sia un esempio di solidarietà selettiva: “Rimane aperta la questione se la solidarietà internazionale per Kobane nasca dall’identità dei suoi difensori curdi, ovvero non arabi sunniti, o dall’appoggio per le posizioni politiche di un partito (il Pyd/Pkk) o dal riconoscimento del principio che tutti i popoli hanno il diritto di difendersi dal terrore, sia esso fascismo nazionalista o religioso, e di autodeterminare come organizzare la propria vita e quella delle proprie comunità. Se davvero sorge da questo riconoscimento, allora la solidarietà per curdi di Kobane dovrebbe essere estesa a tutti i siriani rivoluzionari”, aggiungo, siano essi armati o disarmati.

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