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Le parole sono importanti: quali termini utilizzare quando si parla di disabilità

L’associazione FIABA Onlus di Roma propone una nuova carta deontologica destinata ai giornalisti per l’uso di una terminologia appropriata.

da Milly Barba

SENZA BARRIERE – “Chi parla male pensa male. Bisogna trovare le parole giuste, le parole sono importanti”, recitava Nanni Moretti nei panni di Michele Apicella nel celebre film del 1989 Palombella rossa, inveendo contro una reporter per l’uso improprio di alcuni termini in un articolo. Un caso più che mai attuale se si pensa che spesso alcuni giornalisti, sulla scia del sensazionalismo, del pietismo e alla ricerca di facili “like”, utilizzano le parole con leggerezza, scordandosi che dietro l’appellativo “disabile” c’è una persona e facendo riferimento allo stato di salute di un individuo come un tratto identificativo del suo essere.

Ma L’Associazione FIABA Onlus di Roma, nata nel 2000, presieduta da Giuseppe Trieste e da sempre impegnata nel promuovere l’abbattimento di tutte le barriere fisiche, culturali, psicologiche e sensoriali per la diffusione della cultura delle pari opportunità a favore di tutti, non ci sta e lancia una proposta: rivedere la deontologia del giornalista sul tema della disabilità.

“Il dovere di un giornalista è quello di divulgare un’informazione in modo corretto. E per farlo è indispensabile utilizzare una terminologia appropriata che non sia in alcun modo lesiva o discriminatoria”, racconta Nicola Maria Stacchietti, giornalista dell’ufficio stampa di FIABA. “Si è discusso nel corso dei decenni su quale fosse il termine più appropriato per indicare la persona con disabilità, sono stati creati e diffusi neologismi, ma non si è mai raggiunta una omogeneità né si è mai trovato un termine che raggruppasse diverse sensibilità, storie, convinzioni”, continua Stacchietti.

“Rifacendoci alla Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità, in questa proposta “Carta deontologica delle PRM” ci pare necessario prescrivere alcuni termini, piuttosto che proporne di nuovi.” Così FIABA suggerisce una rivoluzione linguistica, convergendo nell’acronimo PRM (person with reduced mobility), già adottato a livello internazionale negli aeroporti, e abolendo termini ormai superati o lesivi. “Basta ricordare cosa scrive la Convenzione: handicap viene completamente cassato (non appare neppure una sola volta in tutto il testo), mentre si sostiene che l’aggettivo disabile non debba mai diventare un sostantivo. Si può parlare di persona disabile, ma non di disabile. Si rischia di creare un termine collettivo che va a indicare una minoranza, insomma una discriminazione”, sottolinea Stacchietti.

La “disability style guide” del National Center on Disability and Journalism di New York, poi, è molto chiara. Alla parola “disabled/disability”, scrive: “Quando ci si accinge a descrivere un individuo, non fare riferimento alla sua disabilità, a meno che non sia strettamente pertinente con la storia che stai raccontando. Se davvero è pertinente, è meglio usare un termine che si riferisce alla sua condizione di individuo, prima, e poi alla sua disabilità.” Per esempio: “Lo scrittore, che ha una disabilità” è da preferirsi a “Il disabile, che fa lo scrittore”. Da evitare soprattutto “menomazione/menomato” (per i motivi di cui sopra); ma anche “diversamente abile/diversabile”: hanno assunto un carattere di politically correct e sembrano avulsi dalla condizione reale della persona con disabilità, come specificato anche dall’Accademia della Crusca nella disquisizione “Meglio handicappato o portatore di handicap? Disabile o persona con disabilità? Diversamente abile o diversabile?”.

Vi sono, inoltre, delle perifrasi semanticamente agghiaccianti molto care allo stile giornalistico di questi anni, come “costretto su una sedia a rotelle”. FIABA ne riporta alcune. Al primo capoverso di un articolo della Repubblica.it del 28 novembre 2016, intitolato «Capri, il disabile e il belvedere negato: “Ho il diritto di ammirare il mare”», si legge: “Non possono negarmi il diritto di vedere il mare. Può solo intuirlo, Christian. E non lo accetta. Perché quegli scalini che lo separano da uno dei panorami più belli dell’isola di Capri sono un limite crudele e invalicabile per chi, come lui, è costretto su una sedia a rotelle.” E ancora, sul CorrieredellaSera.it, in un articolo dal titolo «Chi vuole giocare con me?» del 25 novembre 2016: “Nicola ha 10 anni, frequenta la quinta elementare a Palermo e il suo video appello potrebbe sembrare uno dei tanti che girano su Facebook. Il bimbo, però, sin dalla nascita è costretto a spostarsi su una sedia a rotelle perché è affetto da spina bifida.”

Le perifrasi sono ricorrenti e, come sottolinea il giornalista, spesso traspare una visione falsata della realtà, dove la sedia a rotelle, strumento di liberazione e di autonomia, diviene simbolo stesso della disabilità. “La sedia a rotelle è un facilitatore, uno strumento di liberazione”, ammonisce Stacchietti. “Proprio l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha fatto un passo indietro epurando dalla simbolistica sulla disabilità l’immagine della persona in carrozzina e sostituendola con un’immagine stilizzata dell’uomo vitruviano. Il messaggio è chiaro: l’uomo come misura di tutte le cose. E proprio così deve essere se si vuole costruire una società inclusiva ed accessibile. La proposta FIABA non fa altro che acquisire ciò che l’Onu afferma da tempo, e che ancora non ha trovato applicazione nella narrazione giornalistica italiana.” Accolta con entusiasmo, l’iniziativa lanciata da FIABA ha già raccolto numerose adesioni, come ricorda il presidente dell’associazione Giuseppe Trieste. “L’Ordine dei giornalisti di Lazio e Abruzzo hanno sottoscritto la proposta. Attendiamo un riscontro anche da parte del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti.”

Questo articolo è stato pubblicato qui

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