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La vita è brutale e poi muori. Intervista a Emilio Manfredi

Un titolo geniale per un romanzo che si rivela un falso romanzo. Emilio Manfredi firma uno splendido reportage sull’Africa e i suoi rapporti osceni con l’Italia.

Andiamo con ordine. Manfredi è un giornalista ormai smarrito in Africa da oltre un decennio, vive e respira Africa. Decide di scrivere un libro, e per avere le mani libere decide di scrivere un noir africano. Fugge e sfugge dalla trappola di diventare icona di giornalista in pericolo minacciato dal mondo intero (nel mentre comodamente seduto a casa) e costruisce uno dei ritratti più veritieri dell’Africa contemporanea che si guarda allo specchio, e trova riflessa l’immagine del nostro beneamato Paese delle tarantelle classiche: mafie, puttane coca e rapporti incestuosi tra finanza e criminali.

Detta così è banale, infatti la penna di Manfredi è efficace perché punta verso il basso dell’umanità. Non è un sentito dire, ma si intuisce subito che è vissuto per davvero, vissuto sulla pelle e dentro la carne. Le descrizioni delle strade, aeroporti, persone, bar e bordelli sono rimandati così vividamente che non si può averlo letto comodamente a casa come gli sbandierati reporter in pericolo, ma solo vissuto ogni santo giorno. 

La narrazione vede al centro proprio un giornalista convertito in spacciatore, che con un colpo di maestria mette subito in luce la decadenza di un mestiere, i pochi soldi e l’inesistente volontà di raccontare il reale degli editori nostrani.

In Manfredi c’è sempre la scusa che è un romanzo, invece è la realtà. Cominciando dall’Africa che riempie i nostri telegiornali e di cui abbiamo pochi servizi, zero reportage perché tanto non vende. Ecco che il testo diventa quindi un’immersione profonda nel cuore dell’Africa, senza retorica e con il rispetto di chi è ospite ma che può anche scriverne per davvero perché ne attraversa il quotidiano.

Valerio Montale, il protagonista dietro cui si nasconde Manfredi (e neanche tanto bene a dirla tutta), gira come un pazzo ossessionato da verità irraggiungibili, non si crede martire ma solo perduto, finto disinteressato alla vita, l’affronta con spirito suicida, fallimentare anche in questo. Il ritratto più potente che emerge è lo stato dell’arte della penetrazione delle mafie italiane in Africa.

E’ un romanzo, quindi niente di verificabile, solo una bella trama, invenzioni a tutto tondo, solite minchiate che a parere dello scrivente sono quasi meglio di un’informativa dell’Interpol. Manfredi è sodale di Stefano Liberti, entrambi esperti di Africa, di terre rubate all’Africa e delle nuove forme di colonialismo criminale e istituzionale, senza contare l’esperienza nello spiegare perché la gente si affolla sulle coste per migrare. Da questo sottostante di conoscenze e sensibilità, il libro ha basi solide per chi vuole vedere oltre, per chi non si fa ingannare da una lettura che scorre fin troppo veloce, perché sembra quasi un film di John Woo prima maniera, un hard boiled come non capitava da molto sugli scaffali delle librerie.

Alla presentazione di Roma (con passaggi letti dalla splendida voce di Valentina Carnelutti), Liberti e Manfredi hanno evitato accuratamente il gioco degli intellettuali, sulle forme e digressioni del romanzo, ma con grande umiltà hanno dato una lezione di reportage, di giornalismo che scompare, di meccanismi editoriali infognati, nel mentre però, accade il mondo, ovvero le mafie si mangiano l’Africa, gli aiuti umanitari sono in alcuni casi eccellenti coperture (al riguardo deve essere letto Outlaws Inc di Matt Potter che già qualche anno fa spiegava la genia dei piloti russi che portano medicinali insieme ad armi, droga e ogni ben di dio nei loro aerei), la gente muore di fame classicamente oppure rischia di morire in mare per avere una vita migliore.

I saggi annoiano, questo il refrain degli editori, un falso clamoroso. Ed ecco allora che bisogna reiventare il reportage attraverso il romanzo, ma affidarlo a chi onestamente non vuole essere icona di qualcosa contro, qualcosa di altro, ma semplicemente narrare ciò che non è mai per davvero narrato. Nella presentazione citata di Roma, emergeva il dato evidente di come la scrittura e il giornalismo italiano si fermino alle nostre coste, forse anche prima. Discorso non valido per tutti, ma i pochi che resistono trovano sempre un Mediterraneo d’indifferenza in cui non devono affogare.

La vita è brutale e poi muori, così anche il giornalismo e il reportage. E Manfredi lo ha capito perfettamente. 

Il tuo libro, dal mio punto di vista, nasconde un approfondito reportage dietro la maschera del romanzo, come mai questa scelta? 

“Questo libro è un'opera di fiction. I personaggi sono inventati, la storia costruita a tavolino. Il mio patto col lettore è questo, e non c'è nessun ambiguità. Però, come dico nella nota introduttiva la realtà - fatta di eventi e memorie - ha fatto irruzione sin dall'inizio della stesura di questo lavoro. Quindi certo, ho preso spunto da ciò che conosco, da oltre un decennio di vita quotidiana in Africa e assieme agli africani, e di reportage e ricerca sul terreno. Mi interessava usare lo strumento del romanzo per cercare di avvicinare il lettore ad alcune tematiche, parlare delle contraddizioni e del conflitto, oltre che dei legami due pezzi fondamentali della mia vita, l'Africa e l'Italia. Il noir, poi, per me è uno strumento prezioso per raccontare tramite una storia di finzione degli spaccati della società reale, senza farsi impaurire dalla crudezza dei vissuti. Spero di suscitare un interesse verso ciò che si intravede nel mio romanzo, così da cercare e richiedere più informazioni”. 

Cosa ha dettato la tua scelta di vivere in Africa, e per curiosità ti hanno mai accusato di rubare i lavoro da migrante al contrario? 

“Come tutti i passaggi della mia vita, è stato un misto di risolutezza e di caso. Io volevo scrivere, fare giornalismo, e nella esplosiva curiosità giovanile il continente africano, le sue lotte e le sue contraddizioni, era una parte di mondo che m'interessava molto. Divoravo storie da questi luoghi nelle mie letture e nei miei studi. Ho avuto la fortuna di avvicinarmi ancora di più tramite la favolosa commistione nata con amici originari di diversi paesi africani, di prima e seconda generazione, che vivevano in Italia. Così, dopo una serie di viaggi e reportage, me ne sono andato a vivere in Etiopia, che è diventata la mia casa, la base per le mie esplorazioni del continente. Dopo parecchi anni mi sono spostato di Paese e ho vissuto in Costa d'Avorio, Kenya e ora Senegal, ma non ho mai pensato di andarmene dal continente. Per quel che riguarda il fenomeno del "migrante al contrario", credo che tutto dipenda dalla tua relazione con chi ti ospita, da quanto ti mescoli alla gente. Io, sono stato accolto come vorrei anche il mio Paese sapesse accogliere, con curiosità e ospitalità. Si sente dire che molti bianchi in Africa hanno un atteggiamento rapace nei confronti delle persone e delle risorse. Purtroppo, è spesso vero. 

Comunque, a proposito di migranti, ricordo che una volta mia nonna, ormai novantenne, mi fece un'osservazione molto interessante. Lei era di origine irpina, emigrata a Milano negli anni '40 per lavorare e scappare dalla guerra e dalla fame, con molti parenti in giro per il mondo per le stesse ragioni. Ero andato a trovarla e mi disse: "Pensa un po', noi siamo dovuti emigrare dal paese per cercare un mestiere, e tu mo' hai dovuto emigrare in Africa per lavorare". Ecco, le migrazioni di solito avvengono per necessità, per bisogno, per cercare mobilità sociale. Io ho avuto la fortuna di "emigrare" soprattutto per scelta”. 

Quale la notizia, la questione di rilievo che la distratta informazione italiana sta mancando completamente nelle poche e sparute analisi sull'Africa e su cui invece dovrebbe porre attenzione?

“Non è una notizia, è un fenomeno. In Africa il PIL dei Paesi cresce a velocità assurde, ma a trarne beneficio sono solo delle elite politico-economiche rapaci, che poco o nulla restituiscono alla propria gente. Questi Paesi hanno almeno il 50% di giovani e giovanissimi tra la popolazione. Ragazzi che chiedono opportunità e risposte ai propri sogni, e si trovano di fronte false promesse e vere repressioni. L'alienazione che ne nasce produce criminalità, che a volte diventa radicalizzazione religiosa, e migrazioni. Non sono solo guerre e carestie a spingere i giovani africani nelle mani dei trafficanti. C'è anche la responsabilità diretta di governi corrotti, violenti e repressivi, che troppo spesso i nostri aiuti di cooperazione continuano a sostenere, per ragioni d'interesse economico e strategico. Prima di dare la caccia alle streghe, sarebbe bene che ci facessimo delle domande, e cercassimo di capire, cosa succede nelle Nazioni da cui si migra”. 

Le mafie che livello di penetrazione hanno raggiunto in Africa e secondo te è una questione che viene affrontata o semplicemente dimenticata? 

“Il livello di penetrazione delle mafie in Africa è forte, in crescita, ma tuttora poco studiato. La cocaina è forse il business più conosciuto sia dalle forze di polizia internazionali sia dall'opinione pubblica. Ma rimangono mille altri rivoli da studiare, da indagare. Quello che mi sembra più preoccupante, e meno visibile, è il riciclaggio di danaro: in sistemi politici compiacenti come quelli africani, in cui la legislazione per reati di riciclaggio è - quando va bene - blanda e poco applicata, in cui i funzionari pubblici non sono invogliati (culturalmente e anche economicamente) a garantire la propria lealtà alle istituzioni, ma al contrario si specchiano in una leadership rapace e corrotta che da un esempio devastante a tutto il resto della popolazione, per le mafie bisognose di pulire enormi capitali provenienti da attività illecite questo è un eccellente terreno di pascolo. Anche queste sono le conseguenze della "politique du ventre" di cui parlavamo prima”. 

Nel tuo libro sembra che l'Africa si guardi allo specchio e trovi riflessa l'Italia, mi sbaglio? 

“Non vivo in Italia da molto tempo, ma ogni volta che ritorno osservo purtroppo come molte dinamiche che abbiamo discusso siano in atto anche qui. Soltanto, che restino incanalate in un solco più subdolo, sottile e sotto traccia, per ora. Senza cambiamenti importanti, non vedo lieti fini da nessuna parte”. 

 

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