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La trattativa. I tenutari del Casinò

È ormai sotto gli occhi di tutti il fatto che i gangli vitali dello Stato, quelli su cui si reggono le sorti del nostro futuro di italiani (magistratura, governo e parlamento), marciano dritti verso un destino barbaro e beffardo. La propria perdita di credibilità. Le ragioni sono molte. L’ultima è tutto il materiale probatorio, dibattimentale e inquisitorio sul quale si fonda l’attuale processo sulla trattativa Stato-Mafia, nel quale è coinvolto il testimone Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, anello di congiunzione tra Stato e mafia al tempo del sacco di Palermo e anche dopo.

Ora possiamo cominciare a contare gli anelli che vanno saltando, mentre si dissolve la legalità come valore morale. Dopo l’eliminazione fisica del procuratore Antonio Ingroia, una vera e propria rimozione costruita a tavolino a livello pluridisciplinare, tra diverse fonti di potere (dello Stato, della carta stampata e dell’informazione radiotelevisiva) si sono avute le minacce di morte al pm Nino Di Matteo, contro il quale si è pure avviato un procedimento disciplinare per un’intervista a Repubblica nella quale si confermano le intercettazioni Napolitano-Mancino agli atti dell’inchiesta.

Ed è già venuto il turno per Francesco Messineo al quale il consiglio superiore della magistratura muove una serie di accuse così gravi da indurre la prima commissione a iniziare la procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità. Lo accusano di aver fatto sfumare la cattura di Matteo Messina Denaro “per difetto di coordinamento all’interno dell’ufficio della procura“, come vuole l’accusa del pm Leonardo Agueci, fatta propria dal Csm. Una vera e propria questione di lana caprina perché stabilire lo standard di qualsiasi coordinamento è questione opinabile che dipende da una personale professionalità e correttezza. Un tallone d’Achille che se dovesse essere applicato a tutti i dipendenti dello Stato potrebbe mandare a casa il 90% dei dipendenti, e qualcosa in più dei dirigenti.

Tutti sanno che la vera “incolpazione” di Messineo, non considerando la richiesta di archiviazione di qualche altro caso che lo riguarda, è quella di avere avuto buoni rapporti con gli altri magistrati del suo ufficio e soprattutto con Antonio Ingroia, costretto a un’autodifesa solitaria impotente e fatto oggetto persino di derisione. Fino alla scelta dell’autoesclusione dalla stessa magistratura, come ultima chance per salvaguardare la propria salute fisica e morale. È il massimo, per un magistrato che da sempre ha lottato contro la mafia a viso aperto, che solo la dittatura di Pinochet o di Videla avrebbero così sottilmente messo in atto.

L’amara evidenza sorge spontanea. In questa Italia che va in malora, chi combatte per la legalità e per la verità è punito e chi detiene le redini del potere è premiato anche quando buon senso vorrebbe che anche sul suo operato i cittadini ci vedessero chiaro.

La trattativa Stato-Mafia è vecchia quanto la storia dell’Italia monarchico-repubblicana. Da quando, in vista dello sbarco angloamericano, fu stabilito il preciso ruolo che avrebbero giocato le famiglie mafiose nelle operazioni di intelligence necessarie a preparare l’Operazione Husky. E come è dimostrato dalla trattativa tenuta dagli alti vertici dell’Arma dei Carabinieri con la banda di Salvatore Giuliano per abbattere la democrazia nascente, dopo il crollo del fascismo e la vittoria delle forze popolari e repubblicane nel referendum del 2 giugno 1946.

Il maresciallo Giuseppe Calandra lo conferma nei suoi manoscritti, quando dichiara di aver ricevuto una lettera di un suo superiore con la quale lo si informava del fatto che si era costituito un Fronte dei Reali Carabinieri destinato ad abbattere anche con le Armi il comunismo. È da quegli anni che comincia la storia della trattativa. Fingere di non saperne nulla è segno di complicità e di inqualificabile omertà.

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