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La ricostruzione della moralità pubblica è la più grande delle riforme

La ricostruzione della moralità pubblica è, oggi, il più ricco dei programmi politici, e la più grande delle riforme.

Questo scriveva Stefano Rodotà nella prefazione del libro "Milano degli scandali" di Gianni Barbacetto ed Elio Veltri pubblicato da Laterza nel 1991, un anno prima dell’arresto del mariuiolo Mario Chiesa.

Leggere oggi le sue parole, 19 anni dopo, fa pensare che quasi quattro lustri sono trascorsi invano: "Sono, queste, cronache di ordinaria corruzione. In esse non si riflette una patologia, ma quella che ormai sta diventando (è già diventata?) la fisiologia dell’intero sistema politico-amministrativo dell’Italia repubblicana. Non sono cronache di una lontana provincia, isolata e dissonante, ma del centro produttivo del paese. Non sono campioni estratti con un’opera minuziosa d’indagine da un mondo in ombra, ma vicende ben note, già arrivate alla conoscenza dell’opinione pubblica." 
La fotografia della reale situazione di allora si applica ai tempi nostri con lo stesso pessimismo: sono da tempo convinto che di queste cronache abbiamo grandissimo bisogno, per sottrarre i fatti che narrano alla dimenticanza, alla vita effimera d’una pagina di giornale o a quella, inaccessibile per i più, di un atto giudiziario. Solo così si può mostrare come il singolo scandalo, conosciuto magari distrattamente attraverso il racconto d’un processo, non fosse un caso eccezionale, ma la rivelazione d’una abitudine, di un tessuto di relazioni tutte identiche, in una parola d’un costume politico che si candida ad essere l’unica ineludibile legge di questo paese.
 
La corruzione si è fatta da tempo metodo di governo. Negli ultimi anni è divenuta qualcosa di più: cultura diffusa, che ispira comportamenti politici e stili di vita di un’intera classe dirigente politica, amministrativa, imprenditoriale, la quale ostenta con durezza i panni del realismo e disprezza il moralismo. Corrotti e corruttori possono essere scoperti. Ma diventa sempre più difficile rivolgere verso essi una vera riprovazione sociale. Perché tutto questo sta avvenendo, è avvenuto? Ci sono ragioni specifiche del nostro paese, ed altre che ci accomunano, non onorevolmente, a quel che sta accadendo pure altrove. Non basta un riferimento all’ampiezza della corruzione per cogliere qualità e caratteri della vicenda italiana. Ci sono paesi di alta e lunga tradizione democratica che da sempre convivono con una non indifferente corruzione politica e amministrativa, che conoscono i legami tra politici e gruppi di pressione, e tuttavia non hanno visto crescere la qualità della corruzione fino a divenire uno dei segni distintivi del sistema politico e reagiscono espellendo dal loro seno almeno i responsabili dei comportamenti più scandalosi, anche quando ricoprono altissime cariche politiche. In Italia, no. Il nostro ceto di governo ha via via sviluppato una attitudine esattamente opposta. Ha badato alla propria coesione interna, più che alla sua rispettabilità pubblica. Ha così fatto quadrato intorno ai propri ladri, malversatori, tangentari, procacciatori, finanziatori.
 
Ha rifiutato di accettare la distinzione, ovvia, tra accertamento giudiziario di un reato e comportamenti che, sia pure sfuggiti in qualche modo tra le maglie della giustizia, rimangono politicamente inaccettabili, ed ha così mantenuto al loro posto anche persone colpite da un paio di condanne, sia pure non definitive, o assolte in modi acrobatici.
 
L’analogia con le lamentele per le strumentali persecuzioni giudiziarie anticipa la campagna di delegittimazione della magistratura da parte dell’attuale PdC:
 
Ha trasformato in indebita persecuzione la sacrosanta richiesta di non affidare la gestione di pubbliche risorse a chi sia stato sospettato di attività illecite. Ha urlato contro le opposizioni che invocano pulizia. Ha presentato come disturbatore o irresponsabile chi adempiva all’ovvio dovere di denunciare i casi di corruzione 
 
Ha elevato a propria linea di comportamento l’ironico e disperato apologo di Ennio Flaiano: «Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate forte che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: ’Ah - dice ma non sono in triplice copia!’».
 
C’è anche l’auspicio di avere un "Parlamento pulito"
E così questo ceto di governo ha mantenuto al loro posto, o reintegrato allegramente in posizioni provvisoriamente abbandonate o riciclato in maniera vantaggiosa, personaggi che qualsiasi sistema politico democratico avrebbe espulso senza esitare. Ma questo bel ceto di governo ha fatto di più. Ha prodotto teorizzazioni che dovrebbero provare la modernità piena, e dunque la superiorità, di un atteggiamento che non si attarda nel cercar di scoprire e colpire la corruzione, ma va dritto verso obiettivi di efficienza.
 
Il famoso esempio ripetuto dall’ex ministro grande notabile del PSI De Michelis:
 
Personaggi autorevolissimi di questa Repubblica hanno divulgato senza pudore la «metafora del supermercato». Si ricorda, infatti, che il gestore di un supermercato sa benissimo che molti frequentatori rubano o rubacchiano. Ma sa altrettanto bene che servizi di controllo e apparati di sicurezza non riusciranno mai ad evitare del tutto i furti. E che un controllo troppo rigido sulle persone, con perquisizioni o simili, rischierebbe di allontanare i clienti da quel supermercato. Ecco, allora, che l’accorto gestore contabilizza i furti, e ne scarica l’incidenza sui prezzi. Profitti e immagine sono salvi, all’insegna del calcolo economico e del realismo. Questa lezione della «modernità» manageriale dovrebbe esser messa a profitto anche dalla classe politica, che dovrebbe spogliarsi di moralismi arcaici e andar dritta allo scopo, senza preoccuparsi troppo se briciole o intere forme di pane finiscono in qualche impropria bisaccia.
 
Questo gran collage ci rivela impreviste connessioni, schemi collaudati d’azione, esercizio tracotante del potere, sicurezza d’impunità. Certamente riesce ad impressionarci. Sarà anche capace di destare indignazione? In altri tempi lo avrebbe fatto. Oggi ho molti dubbi. E li ho non soltanto perché una corruzione così penetrante, avvolgente e dichiarata produce sicuramente un effetto di mitridatizzazione, ed ha coinvolto una schiera sempre più larga di persone nella politica delle tangenti e delle piccole mance, alle quali non si è disposti a rinunciare perché compongono ormai redditi ordinari e connotano stili di vita. C’è una ragione più generale, e davvero non soltanto italiana. L’irresistibile fascino della corruzione è alimentato da un modello che misura tutto con il denaro.
 
Un passaggio che sembra scritto per Verdini & Cricca:
 
In altri paesi, tuttavia, la capacità di reazione non è perduta. Ne fanno fede la rapida e severa giustizia che Stati Uniti e Gran Bretagna hanno saputo esercitare contro le manifestazioni più spregiudicate della speculazione finanziaria. Da noi tutto è molle, gli speculatori hanno solidi legami con il ceto di governo, quando addirittura non ne fanno parte, e a qualcuno può anche arridere la ventura d’essere additato come salvatore della patria.

Questo libro ci mostra che la corruzione non va a braccetto con l’efficienza, che non è un modo per oliare i cardini arrugginiti della burocrazia o della politica. È divenuta motore di inefficienza, di privatizzazione delle risorse, di sottrazione di energie e mezzi a imprese collettive. Ha creato rapporti tra politica e affari, tra politica e amministrazione che fanno apparire modesto il «mostruoso connubio» denunciato nel secolo passato da Silvio Spaventa, e ingenua la sua indignazione. Si dirà che non tutti i componenti del nostro ceto di governo si comportano in questo modo. Ed è vero. Ma la loro colpa è quella di essere vittime del realismo, di coltivare l’omertà di partito, di essere prigionieri della logica «ma così si fa il gioco degli avversari».

Pacifica rivolta contro la corruzione?

Qualche sussulto di dignità, qualche pallida dissociazione pubblica sono la prova di onestà personali, non dell’affiorare di comportamenti politici che possono far sperare in una pacifica rivolta contro la corruzione. Riflettendo su tutto questo, leggendo questo libro, si capiranno pure le ragioni di continue e forsennate campagne contro i giudici che, travestite talvolta da gridi di dolore per le condizioni dell’amministrazione della giustizia, in realtà cercano di azzerare il controllo giudiziario. Questo, bene o male, rimane ancora uno dei pochissimi strumenti che possono non dico fronteggiare, ma almeno contrastare qualche volta i protagonisti di questo spudorato modo d’intendere la gestione del potere.

In un tempo in cui l’etichetta della «governabilità» è usata per coprire qualsiasi prevaricazione, e si trasforma nella richiesta di avere le mani libere, qualsiasi forma di controllo diventa inaccettabile, quello dei giudici come quello del Parlamento o dei mezzi d’informazione. Ma la giustificazione della corruzione, o meglio la sua legittimazione, segue ormai cammini più sottili. Essa - si dice - è uno dei tanti frutti di un sistema bloccato. Fiorisca l’alternativa, e pure la corruzione sparirà. Non nego una certa fondatezza della diagnosi. Sarei meno sicuro della irresistibilità della terapia, perché un governo di alternativa non basta da solo a sradicare la corruzione(non è forse questo l’insegnamento di tanti governi «alternativi» di regioni e comuni?), se la moralità pubblica non diviene momento essenziale del programma e dei concreti comportamenti di tutti i governanti. Mi preoccupa, comunque, il rinvio al momento dell’alternativa della possibilità di una lotta efficace alla corruzione, quasi che oggi le regole del codice penale fossero pur’ esse, per effetto del blocco del sistema politico, divenute inapplicabili. Troppe cose, dunque, inducono a temere che le documentate pagine di questo libro non produrranno l’indignazione che muove le montagne. C’è il rischio, anzi, che qualcuno, di fronte ad un panorama così largo e così desolante, si convinca che davvero non si può far nulla.

Ma ci sono buone azioni civili che debbono pur essere fatte, senza preoccuparsi troppo di conseguenze, effetti, riflessi. Intanto, spero almeno che qualcuno, leggendo questo libro, si vergogni, non dico si ravveda.

E molti altri comincino a rendersi conto che proprio da qui deve cominciare una reazione.

Che la ricostruzione della moralità pubblica è, oggi, il più ricco dei programmi politici, e la più grande delle riforme.

 

Stefano Rodotà- Marzo 1991

Ho riportato ampi stralci della prefazione che potete leggere qui: (http://issuu.com/bastiano/docs/milano_degli_scandali)

Il libro, che non è più in catalogo, ed è stato una fonte sicura di informazioni per le indagini che la procura milanese avrebbe messo in atto successivamente nell’operazione "Mani pulite" che dette la stura a Tangentopoli.

Una piccola, grande, sfortuna ha impedito che questo libro assumesse la paternità di questo neologismo entrato nel vocabolario italiano: la metropoli del malaffare è chiamata Tangentolandia da Barbacetto e Veltri in una visione più territoriale ma il termine non ha bucato i media come Tangentopoli.

Poco male, il lavoro di Gianni Barbacetto è proseguito con la pubblicazione di numerosi saggi da solo e con M.Travaglio ed ora lo vede impegnato nella redazione del Fatto Quotidiano.

Elio Veltri ex sindaco di Pavia dopo aver fondato IDV se n’è allontanato ed ora è impegnato con Oliviero Beha nella lista Civica Nazionale.

Stefano Rodotà intellettuale dell’area progressista, parlamentare, docente di diritto, garante della privacy, autore della carta dei diritti fondamentali della C.E.

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