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La poesia, per me... - Riflessioni sparse sull’arte della parola

Ricordo una vecchia città, - scrive Dino Campana in La Notte (è la lirica che apre l’opera più significativa del poeta, i Canti orfici) - rossa di muri e turrita arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torridi, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. […] Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenio enorme la torre otticuspide rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino.[…] Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo.[…]”.

In questi passi il ricordo vivido e la minuziosa descrizione di una decadenza che colpisce muri, strade ed edifici di un antico borgo, si uniscono a elementi che mostrano l’intima e profonda inquietudine del loro autore e che aiutano a far luce sulla sua personalità, mostrandone lo stato d’animo. E’, questa capacità di presentare e in qualche modo rivelare qualcosa del temperamento dell’artista della parola, uno dei più accentuati motivi di distinzione dell’arte poetica.

Anche in questi versi di Giuseppe Ungaretti la poesia è memoria struggente di una città: quella di Alessandria d’Egitto, luogo da lui amatissimo e mai dimenticato che conobbe il poeta adolescente e giovane studente prima che si trasferisse a Parigi (la poesia è Silenzio, ed è tratta dalla raccolta L’Allegria):

 “Conosco una città/ che ogni giorno s’empie di sole/ e tutto è rapito in quel momento// Me ne sono andato una sera// Nel cuore durava il limio/ delle cicale// Dal bastimento/ verniciato di bianco/ ho visto/ la mia città sparire/ lasciando/ un poco/ un abbraccio di lumi nell’aria torbida/ sospesi”. 

Dino Campana (1885-1932) e Giuseppe Ungaretti (1888-1970), poeti che rappresentano una delle espressioni più alte della storia della poesia italiana del secolo XX, ebbero entrambi vita intensa quanto tormentata la cui rappresentazione autobiografica ritroviamo, almeno nelle sue linee essenziali, tra le righe dell’opera poetica di entrambi. Campana muore a quarantasette anni dopo aver tristemente vissuto buona parte della propria esistenza in manicomio. Ungaretti trasfonde nelle sue liriche l’amaro rimpianto per aver perduto il caro amico e compagno di studi di Alessandria d’Egitto, Moammed Sceab, scomparso giovanissimo, per la morte prematura, nel 1939, del secondogenito Antonietto e l’angoscia e l’orrore suscitati dalla guerra sul Carso, alla quale egli aveva partecipato da semplice soldato di fanteria.  

Sulla scorta dei versi di Campana e di Ungaretti possiamo, in modo del tutto convenzionale, definire la poesia come ricordo, come rifugio dell’anima o specchio di una coscienza, come riflesso di momentanee malinconie o come reazione all’episodio nostalgico che porta il poeta a considerare attentamente ciò che egli, come uomo, ha fino a quel momento realizzato; come, in definitiva, profonda riflessione su vari temi del vivere quotidiano. Certo è, però, che la poesia in quanto espressione libera delle facoltà intellettive e delle volontà umane è anche altro e sfugge a qualsiasi definizione monolitica.

2.

Rivedere luoghi della propria infanzia, della giovinezza, posti che hanno vissuto i nostri amori, anche quelli più silenziosi, puri, felici o tormentati. Andare alla ricerca di questi luoghi, quelli che l’hanno provata, questa sensazione, possono facilmente cogliere ciò che voglio dire, generalmente porta a un irresistibile godimento dell’animo, a un atarassico senso di serenità.

Nella mia esperienza sostare nelle vecchie piazze, ripercorrere strade conosciute, risalire gradini consumati dal tempo, rimirare vecchi edifici, alimenta tensioni che sfociano spesso nel desiderio di una emozione antica, nel desiderio di riassaporare atmosfere che credevo non più esperibili e che invece erano solo assopite e andavano risvegliate nel modo giusto. In certi momenti, poi, a pensare che esisto rimango quasi incredulo; mi sento parte integrante e incommensurabilmente piccola (ma viva, palpitante, pienamente partecipante) di questo universo sterminato. Nel contempo, pur solo per qualche attimo, sento di essere estraneo a qualsiasi coordinata temporale e di essere quasi incapace, almeno nei termini di una concreta quotidianità, di pensare.

M’illumino d’immenso, direbbe ancora, forse, Ungaretti.

E’ allora che mi capita, in modo assolutamente consequenziale, di sentire l’urgenza di scrivere, cosa per me sempre appagante che non delude mai. 

Per me la poesia è descrivere l’esperienza del sublime, esprimere l’inesprimibile, è splendore e magnificenza di parole che di volta in volta declinano i sentimenti della gioia, del dolore, del rimpianto, della fede, dell’impegno civile (molti dei poeti del nostro tempo rappresentano con la loro opera tutto l’orrore, il dolore e l’ingiustizia che quotidianamente angustiano l’uomo d’oggi), dell’amore; per mezzo della poesia anche il misterioso e l’insondabile si fanno più vicini a noi.

La poesia è vita per coloro che non vivono se non attraverso i propri versi.

E’ Apollo e Dioniso, è mente, carne e sangue.

E’ piacere estremo dello spirito, orgiastico miscuglio e accostamento di vocaboli che raccontano l’indole e la natura del vate.

E’ libertà e lacrime amare, materia grigia liquefatta e sublimata su un foglio...

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