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La nemesi del desiderio

Che succede se il desiderio non è più solo "desiderio" ma "norma"?

Se non è più ciò che deve essere gestito dalla ragione, o dal Sé della psicoanalisi; ma una "pratica" che ha valore positivo in se stessa, si può ancora parlare di desiderio?

O non capita, piuttosto, che l'apologia dell'individuo che desidera porti alla diffusione di un'altra, paradossale, forma di sistema normativo, verso un vero e proprio "ordine del desiderio", questo sì davvero paradossale? 

Si parla di valore ma in realtà si fabbrica la norma, come nota Olivier Roy.

Infatti, se il desiderio è prevalentemente norma, allora desiderare diventa solo comportamento, principio che spinge all'azione, verso una "pratica" di possesso, di appropriazione di un oggetto, di una persona, di un atto, di uno stato, ecc. 

Se non siamo più in grado di sperimentare “Il desiderare" prima di tutto come costitutivo stato dell'anima che non ha l’ultima parola, che non è l’ultima parola, ma trasporta dentro di sé "il suo oltre", e, innanzitutto, dice la sua illimitatezza” (Luisa Muraro), allora che ne è del desiderio? Che ne è della condizione umana del desiderio?

Che ne è del "de-siderare" nel senso originario di accettare di rimanere sotto un cielo, nell'incertezza e nell'attesa che le "stelle" si rivelino finalmente a noi, come fonte di orientamento e come orizzonte dei possibili?

E vero che nell'attuale contesto culturale, nella società dello scambio generalizzato, dove ci siamo autoconvinti che tutto si possa comprare, abbiamo perso l'originaria attitudine, tipicamente umana, ad accettare la condizione di "mancanza". 

È vero che ci siamo abituati ad avere, sempre, tutto e subito a disposizione,

ma forse ci stiamo accontentando solo di una forma di restringimento dell'orizzonte immaginabile del desiderio e quindi dell'esistere.

O, addirittura, stiamo accettando come normale - appunto come norma - ciò che Recalcati descrive come una nuova malattia: una paradossale eclissi del desiderio o addirittura la morte del desiderio? Nel migliore dei casi, un impoverimento, un depotenziamento, un vero rachitismo del desiderare! 

Siamo passati dal porre l'individuo desiderante al centro di tutto, dal desiderio come norma, al soggetto privo di desiderio pur se governato dai "desideri"?

Se consideriamo poi la stretta interdipendenza tra desiderio, valori e cultura, possiamo riconoscere nel processo, sopra delineato, anche il sintomo dell'indebolimento della nozione stessa di cultura, e quindi le radici della crisi della politica. (Olivier Roy in, L’aplatissement du monde)

Infatti, pensa Olivier Roy, viviamo ormai in uno" spostamento permanente". Avviatosi nell'ultimo cinquantennio, quando cioè il discorso utopico, che era il punto comune di tutte le grandi ideologie politiche, e rimaneva centrale anche nel discorso religioso, scompare distrutto dall'esito catastrofico dell'immaginario utopico del 900, questo "spostamento" porta a sostituire l'immaginario utopico solo con un discorso della realizzazione di sé, a livello individuale, che si trasforma quasi sempre un discorso puramente giuridico e normativo. 

Come spiegare, altrimenti, che anche la cultura dell'affermazione di sé finisce per trasformarsi quasi sempre in una cultura della rivendicazione negativa?

E tuttavia, occorre pensare che quando la cultura è in crisi, con l'esaurimento del campo dell'immaginario, ciò che emerge è solo la dimensione brutale del desiderio. 

 

 

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