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La monarchia saudita promette più libertà alle donne

Sarà il timore di essere spazzati via dal vento del cambiamento che sta soffiando impetuoso da quelle parti, ma i regnanti ultraconservatori sauditi hanno appena annunciato che provvederanno a riconoscere i diritti politici alle donne. Non subito, però. Davanti alla Shura, l'assemblea consultiva che già lo scorso giugno aveva in parte spezzato il tabù dando il via libera (con 81 voti a favore e 37 contrari) alla partecipazione femminile alle elezioni, seppure soltanto in qualità di votanti, re Abdullah ha ora ammesso addirittura la possibilità che le donne si candidino "a cominciare dalle prossime consultazioni e per i consigli municipali, nel rispetto dei principi dell'Islam".

 

In realtà le prossime consultazioni si terranno giovedì 29 settembre, quando continueranno a votare esclusivamente gli uomini e tutti i 5 mila candidati saranno di sesso maschile. Ma il riferimento del sovrano è alle successive municipali del 2015, l'unico appuntamento realmente aperto al voto popolare al quale è tuttavia delegata la scelta di appena il 50% dei membri consiliari, poiché l'altra metà viene assegnata direttamente con decreto governativo.

A voler credere alla buona fede del rivoluzionario proposito, si tratterebbe comunque di un passo avanti sostanziale contro la discriminazione delle donne saudite, che rappresentano un caso anomalo e isolato (tra i vari divieti a cui sono sottoposte vi è anche quello di guidare l'auto) in un'area dove altri Paesi come il Kuwait, il Qatar, gli Emirati e perfino il teocratico Iran hanno da tempo riconosciuto l'elettorato attivo e passivo alle donne stesse. E allora, proprio per stupirci fino in fondo, re Abdullah ha pure promesso che le donne potranno far parte della ristretta e fidata Shura (da lui stesso nominata) a partire dal prossimo mandato del 2013.

Mentre all'inizio di quest'anno scoppiavano le prime rivolte nel Maghreb, un gruppo di intellettuali sauditi tentava di organizzare attraverso Facebook analoghe manifestazioni di piazza a Riad e Gedda, per rivendicare riforme "democratiche" e l'abolizione di organismi come la stessa Shura e il governo chiusi alla partecipazione dei cittadini.

A differenza che nei Paesi del Nord Africa, però, in Arabia Saudita non si è mai registrata una partecipazione massiccia della gente per le strade e le temute forze di polizia non hanno avuto bisogno di ricorrere a metodi duri per tenere a bada la protesta. Circostanza, a detta di molti analisti, che poteva indurre la dinastia al potere a ignorare le aspettative del popolo ma che invece ha spinto re Abdullah al colpo ad effetto proprio alla vigilia del secondo appuntamento elettorale della storia saudita (il primo risale al 2005).

Gli attivisti, gli studenti e i rappresentanti dei movimenti per i diritti delle donne non sono stati pertanto ignorati: "Noi rifiutiamo l'emarginazione del ruolo della donna nella società - ha certificato con solennità il sovrano - in tutti i suoi ambiti. Anzi, è interesse del nostro Paese non fermarsi davanti alle sfide del millennio. Che vanno affrontate e superate con pazienza per giungere a una modernizzazione equilibrata e nel rispetto dei nostri valori islamici. Perché - ha concluso con una frase illuminate che tanto ricorda i discorsi dei tromboni nostrani di democristiana memoria - si tratta di una richiesta importante in questo momento in cui non c'è più posto per chi continua a voler frenare il cambiamento".

Detta più semplicemente e chiaramente: d'accordo, si cambia, ma senza correre. E lo si fa, soprattutto, per una ragione assai più pratica e meno ideale: occorre mettere da parte gli integralismi religiosi e far comprendere a chi ancora si oppone a qualsiasi miglioramento della condizione femminile in Arabia Saudita, che è in gioco la sopravvivenza stessa della fede islamica nella società. Assieme, ovviamente, alla permanenza al potere della privilegiatissima monarchia wahabita (ognuno ha la sua casta).

Le donne saudite sono da sempre e completamente sottoposte all'autorità maschile. Senza il consenso di un uomo appartenente alla famiglia, non possono lavorare, viaggiare o recarsi dal medico. E, come già accennato, non possono nemmeno guidare. E' per questo che il movimento femminile ha preso atto senza enfasi delle impegnative parole del re e intende verificare a fondo se si tratti solo di un proclama propagandistico. Con molta speranza, certo, ma senza cedere più di tanto alle illusioni.

Speranze e illusioni che nell'intera penisola arabica, pur fra mille sofferenze, hanno portato negli ultimi anni a diverse conquiste di libertà da parte delle donne. A cominciare dallo Yemen, i regimi dell'area hanno nel tempo garantito loro accesso alla politica come pure ad altre attività più o meno importanti del quotidiano. Anche se, tuttavia, la vita pubblica di quei Paesi è ancora in mano agli uomini. Secondo il più recente rapporto di Freedom House, infatti, negli stati della penisola arabica la libertà delle donne nella vita politica si assesta intorno al punteggio di 2, in una scala che va da 1 a 5.


Il primo esempio di concessione di diritti politici alle donne, come detto, si consumò nello Yemen del Sud di matrice socialista e risale al 1973. Dieci anni dopo, nel 1983, toccò allo Yemen del Nord trasformare le donne in elettrici. Attualmente, nello Yemen unificato sono garantiti pieni diritti ad entrambi i sessi, anche se appena lo 0,5% delle cariche pubbliche elettive nazionali e locali è appannaggio delle donne.

In Bahrein, invece, il suffraggio universale è stato concesso nel 2002 e dopo quattro anni è stata eletta la prima e finora unica parlamentare donna della storia nazionale.

L'accesso alla politica delle donne ha una storia un po' più lunga nel vicino Qatar, dove è dal 1999 che esse si recano alle urne. Con l'andare del tempo il loro peso elettorale è straordinariamente cresciuto, tanto che nel 2007 la parte femminile è stata pari a ben il 47% dell'intero corpo elettorale. Anche qui, però, l'accesso delle donne alle cariche pubbliche più elevate resta di fatto debole, in una realtà dove peraltro i partiti politici sono vietati.

Nel Kuwait, prima della guerra del Golfo del 1991, la partecipazione alla vita pubblica delle donne era un tabù. Successivamente, a causa di rivendicazioni divenute sempre più forti e insistenti, nel 2005 sono stati concessi i pieni diritti politici e dal 2009 siedono in parlamento quattro donne. Una pari emancipazione è invece ancora preclusa per ciò che riguarda gli incarichi giudiziari.

La prima donna araba ad essere nominata ambasciatore è una cittadina dell'Oman, in un contesto civile dove il suffragio universale è stato accordato nel 2003 e dove, nonostante i timidi progressi degli ultimi anni, la popolazione femminile copre oggi solamente il 5,5% delle cariche pubbliche.

L'ultimo governo a concedere effettivamente il diritto di voto alle donne è stato, nel 2006, quello degli Emirati Arabi Uniti. Un Paese in cui l'unico organo soggetto alla consultazione popolare è il Consiglio Nazionale Federale, parlamento privo di poteri legislativi, e presso il quale è stata eletta per la prima volta una donna proprio lo scorso weekend.

Insomma, passata la sbornia dell'approccio culturalista seguito all'11 settembre, improntato alla teoria dello "scontro fra le civiltà", i recenti avvenimenti che stanno investendo gran parte del mondo arabo, scosso dalla voglia di "normalizzazione" di società a lungo dormienti e piegate, per l'appunto, a distruttivi dogmatismi, dimostrano che quando affrontiamo tematiche che riguardano altri popoli e altre tradizioni dobbiamo avere l'umiltà di rinunciare alla nostra visione tipicamente occidentale. E ciò, come ad esempio ci ricorda spesso una illuminata donna di casa nostra come Emma Bonino, vale anche quando si discute dei problemi e del ruolo delle donne in quelle stesse società.

Non si può esprimere un giudizio fondato e serio su una civiltà e una cultura "altra" da noi, se non ci sforziamo di conoscerla e comprenderla serenamente. La posizione della donna, in diversi Paesi arabi, è peggiorata in passato proprio a causa della reazione di chiusura alle pressioni dell'Occidente, che ha sempre evitato di capire come un popolo vive la propria realtà e quali sono i suoi ideali. Ora ci corre l'obbligo, invece, di rimuovere gli antichi sospetti e di accantonare ogni stereotipo, per sostenere concretamente il loro laico tentativo di rinascita.

Anche perché, come testimonia lo stato penoso della condizione femminile in molti contesti sociali cosiddetti "evoluti" e in particolare nel nostro Paese, pure da noi i diritti e le libertà delle donne sono spesso oggetto di scontro politico e di una impostazione ideologica oscurantista. Si pensi al caso della legge sulla fecondazione assistita o alle eterne discussioni sull'aborto e sulla contraccezione. Non tralasciando, come l'attualità della "pornopolitica" evidenzia, la speciale attenzione riservata dal rozzo machismo dominante alla mercificazione del corpo e della vita stessa delle donne. Che in alcuni casi accettano quasi con orgoglio questo stato di assoggettamento, dimostrandosi più disponibili a finire nel lettone del ricco e potente piuttosto che in piazza a lottare per le proprie prerogative civili.

In tal senso, per dirla con le parole di Orsetta Giolo, ricercatrice presso la cattedra di Filosofia del Diritto all'Università di Ferrara e studiosa del rapporto fra femminismo e diritto islamico, da un maturo e non superficiale confronto con il mondo arabo chi ha forse più da imparare siamo proprio noi occidentali. Noi presunti liberali, aperti e democratici che all'atto pratico ci rendiamo invece complici, anche solo tollerandoli o attraverso l'indifferenza, dei tanti drammi che ancora gravano sulla vita delle "nostre" donne: dalla violenza fisica e morale, alle quotidiane discriminazioni in ambito lavorativo, alla minore rappresentanza politica rispetto agli uomini.

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