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La guerra in Libia e “l’invasione” dei terroristi

Incredibile la sordità di fronte ai rumori di guerra a due passi da casa. Gli imbecilli pronti a mobilitarsi contro quella che chiamano “insopportabile invasione” di migranti (come vengono presentati i 3.000 esseri umani da accogliere in una città di 3 milioni di abitanti come Milano…) abboccano alla propaganda che preannuncia nuovamente, come è stato fatto da mesi, l’arrivo di terroristi ammucchiati sui gommoni.

Questa volta però con qualche probabilità in più che una “profezia” campata in aria si autoavveri: tra i sopravvissuti ai massacri di migliaia di civili che hanno caratterizzato i bombardamenti di Sirte da parte della coalizione di predoni, ci potranno essere ben più che in passato futuri terroristi intenzionati a vendicare in qualsiasi modo i propri caduti, e anche singoli militanti del Daesh in ritirata e in cerca di un nuovo terreno di lotta.

Certo, la campagna allarmistica è finalizzata a preparare l’opinione pubblica europea (mai così manipolabile come in questa fase di pensiero unico) a un respingimento anche cruento della cosiddetta “invasione” e all’espulsione generalizzata e traumatizzante di presunti “simpatizzanti” del terrorismo. Con che capacità di discernimento lo immaginavamo, ma ci è stato confermato da un’inquietante intervista a un “dirigente penitenziario” della casa circondariale di Rebibbia, Maria Carla Covelli, che sulle pagine dell’ultimo numero di Limes (per altri versi interessante, e su cui ritornerò)[i], spiega i criteri usati per “combattere il reclutamento di terroristi nelle nostre carceri”.

Prima di tutto bisogna osservare, ci assicura la Covelli, la pratica della religione: “Occorre verificare la modalità della preghiera, l’eventuale intensificazione o diminuzione rispetto all’inizio, la preferenza all’isolamento durante la preghiera”, ecc.

Ma anche “osservare l’aspetto esteriore” come la crescita della barba o l’uso di abiti tradizionali. E soprattutto “dobbiamo esaminare la presenza di tappeti per la preghiera, di poster, articoli di giornale, foto scritte sui muri. Da valutare anche il rifiuto della televisione nella stanza”. Appare evidente che questo tipo di dirigenti penitenziari confondano la pratica religiosa di un buon musulmano con il terrorismo. Come il suo capo spirituale, Angelino Alfano, Maria Carla Covelli trova grave che un detenuto rifiuti gli indigeribili pastoni della televisione, e magari si consenta “l’esternazione di critiche nei confronti dell’intervento occidentale nei paesi musulmani e nei confronti del governo e delle istituzioni italiane, alla critica, in sostanza, dei sistemi democratici, ovvero delle altre religioni. Può essere importante il rifiuto dei valori occidentali (programmi televisivi, musicali, tatuaggi, piercing, Coca Cola…)”. Povero me, rientrerei facilmente nella categoria dei più che sospetti, non solo ho la barba, ma ho esplicitato molte volte la mia critica dei criteri “democratici” del governo Renzi-Alfano, e di tutte le religioni, per non parlare dei “valori occidentali” come la Coca Cola venerati dalla poliziotta…

E c’è davvero da preoccuparsi quando la Covelli passa a fare esempi e ci racconta un episodio agghiacciante, che riporto integralmente:

“Recentemente a Rebibbia, nel corso di una perquisizione ordinaria, sono stati rinvenuti dei fogli manoscritti in lingua araba, affissi sulle pareti della cella occupata da un detenuto egiziano. Immediatamente rimossi, sono stati trasmessi all’ufficio per l’attività ispettiva e del controllo presso il DAP [Dipartimento Amministrazione Penitenziaria] che ha provveduto a classificare il soggetto quale «segnalato», in attesa di decifrare il contenuto delle scritte. Eseguita la traduzione a cura dell’interprete presente del NIC [Nucleo Investigativo Centrale], un consulente tecnico accreditato presso la procura, è emerso trattarsi di meri versi coranici. Il soggetto è dunque stato estromesso dal terzo livello di osservazione”.

Quanto tempo ci è voluto? E cosa è successo nella mente di un umile seguace dell’islam che si è visto sequestrare le copie manoscritte di qualche sura del Corano? E perché è successo? Ce lo spiega in burocratese la “dirigente” con un certo numero di eufemismi: i controllori non sono in grado di controllare nulla.

“In effetti, una delle criticità riscontrate nella gestione dei detenuti, al fine di prevenire fenomeni di proselitismo e radicalizzazione violenta in carcere è legata proprio alla difficoltà dei nostri operatori a comprendere la lingua araba. Si potrebbe ricorrere all’ausilio di operatori sanitari che conoscano la lingua, oppure dei mediatori culturali, se presenti in istituto. Ma ciò non sempre può accadere”.

La dirigente penitenziaria è angosciata perché non sa con quali criteri “scegliere tra isolamento dei soggetti a rischio, grande sorveglianza e limitazione nell’esercizio dei diritti, in ragione di una maggiore sicurezza, ovvero inserimento di tali soggetti in una vita di relazioni ordinaria”. Lei propenderebbe per la seconda, ma non sa come fare, dato che quando i detenuti che si riuniscono per pregare, sotto l’occhiuta sorveglianza della polizia penitenziaria, subiscono una molestia del tutto inutile, dal momento che per l’assoluta ignoranza delle lingue e soprattutto della cultura del mondo islamico “nessuno sa però se è vera preghiera, o se sia piuttosto pericolosa attività di proselitismo”.

Al terrorismo o all’Islam, per un poliziotto non fa differenza…

Torniamo a questa guerra, che finora sul terreno è stata combattuta in prevalenza dai mercenari locali (e non da quelli di cui dispongono in proprio tutte le potenze imperialiste). Con che risultati, si vedrà presto. L’allontanamento di poche centinaia di combattenti del Daesh non consente minimamente di superare il disordine che regna in Libia, non solo e non tanto per i limiti politici dei vari movimenti che si contendono le risorse petrolifere del paese, quanto per le reticenze e le ambiguità dei loro padrini imperialisti.

Si pensi al ruolo del generale Haftar, che esiste come terzo o quarto incomodo solo grazie alle forze speciali francesi, britanniche, statunitensi (e italiane…) presenti nella base aerea di Banina da cui opera indisturbato. E oggi la nuova rete di alleanze stabilita con abile cinismo da Erdogan con Israele e Russia, pone nuovi problemi ad al-Sissi, che finora aveva giocato indisturbato la carta di Haftar, dietro il quale nascondeva l’intervento diretto dell’Egitto.

I conflitti interimperialisti in Libia (con in ballo una sua possibile spartizione formale) non hanno nulla o pochissimo a che vedere col problema del comando Daesh a Sirte, e tanto meno con il flusso di migranti provenienti dall’Africa subsahariana che usano la Libia come ultima tappa verso l’Europa. Su questo ritornerò presto.

In ogni caso, pur sapendo di ripetermi, non posso smettere di lanciare un allarme su quelle che saranno le ripercussioni sul nostro paese di questa guerra insensata, da cui è assurdo illudersi di potersi dissociare ipocritamente in base all’esiguità delle forze impiegate direttamente. Ogni italiano rischia di essere il bersaglio più vicino e facile per chi avrà sete di vendetta. E lo sarà anche se la partecipazione diretta a questa guerra, come a quella del 2011, è stata nascosta dal governo finché ha potuto, anche perché non corrispondeva a un qualsiasi interesse diretto del nostro imperialismo, ma è avvenuta paradossalmente a rimorchio di potenze interessate a soppiantarci nello sfruttamento delle enormi ricchezze del sottosuolo libico.

E la scelta avventurista del nostro governo (con l’avallo scontato di un’Europa incapace di fronteggiare la svolta tattica di Erdogan), è stata più facile per l’ipocrisia delle sedicenti “opposizioni”, quella di destra che vorrebbe irresponsabilmente una maggiore presenza militare, quella “di sinistra” penosamente legata a rivendicare dal governo un rispetto formale per un parlamento illegittimo e non rispettabile composto da irresponsabili nominati dall’alto, di cui fa parte senza vergognarsi. 

 

[i] Limes, n. 7 2016, Chi siamo. Il numero è diviso in tre parti ugualmente interessanti, sulla tattica di Erdogan, sulla provenienza dei migranti e su come “integrarli a casa loro”.

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