“La cultura delle destre”: intervista a Gabriele Turi
Gabriele Turi è professore ordinario presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze. È stato presidente del Corso di laurea in Storia, coordinatore del Dottorato di studi storici per l’età moderna e contemporanea e direttore della Scuola di Dottorato in Storia dell’Università di Firenze. Condirettore di “Studi storici” nel 1976-1978. Dirige dal 1982 la rivista di storia contemporanea “Passato e presente” e, dal 1995, il bollettino “La Fabbrica del libro”.
È membro del comitato direttivo della Biblioteca toscana di storia moderna e contemporanea dell’Unione Regionale delle Province Toscane. Le sue ricerche, dedicate in origine alle insorgenze antifrancesi in Italia, si sono poi concentrate sulla storia delle istituzioni culturali, degli intellettuali e dell’editoria nel secondo ’800 e nel ’900, con particolare attenzione al periodo fascista.
Lo abbiamo intervistato sul suo ultimo lavoro, La cultura delle destre, edito da Bollati Boringhieri. (Qui su IBS)
Redazione: La cosiddetta Seconda Repubblica è stata caratterizzata da un consenso per le formazioni di destra assai più ampio che durante la Prima. Il suo libro, in particolare, si sofferma sulla lotta, che lei definisce “ossessiva”, contro la presunta “egemonia culturale della sinistra”. Quanto sono legati i due fenomeni?
Turi: Il contesto internazionale e quello interno contribuiscono a spiegare l’aumento del consenso per la destra e la costruzione ideologica di una “egemonia culturale della sinistra” da combattere. Gli anni ‘80 sono in entrambi i casi decisivi. Da un lato abbiamo le scelte liberiste e antisindacali di Ronald Reagan presidente degli Stati Uniti nel 1981-89 e di Margaret Thatcher, primo ministro britannico nel 1979-90, mentre dall’altra parte del mondo diviso in due si verifica nel 1989 la caduta dei Muri dopo un decennio di crisi del sistema dei paesi socialisti. Sul piano interno, italiano, dal 1983 al 1987 Bettino Craxi è il primo socialista che sale alla presidenza del Consiglio, ma per “modernizzare” l’Italia egli attua una politica anticomunista, sulla scia di Proudhon, il cui socialismo umanitario e pluralista è da lui contrapposto nel 1978 al marxismo e al leninismo che avrebbero portato al totalitarismo sovietico.
Sembra paradossale, ma proprio quando il comunismo viene frantumandosi monta la polemica contro la “egemonia culturale della sinistra”, promossa all’inizio del 1990 da Galli della Loggia nella sua rapida riflessione sul ruolo svolto dalla casa editrice Einaudi, che quattro anni dopo sarebbe passata completamente alla Mondadori di Berlusconi. A questo rimescolamento di carte ha contribuito anche il Partito comunista italiano, che si è sciolto nel 1991, l’anno in cui ha chiuso “Rinascita” e “l’Unità” da organo del Pci è diventato “Giornale fondato da Antonio Gramsci”.
Il fallimento dell’Urss e del socialismo reale nei paesi dell’Est ha sollecitato in Italia i critici della sinistra, che hanno usato la parola d’ordine della sua egemonia culturale per ampliare i consensi per la destra e il suo mondo di valori, che in Italia hanno una lunga tradizione: una cultura conservatrice percorre tutto il ‘900, dal nazionalismo al fascismo, fino ai governi repubblicani, nei quali saranno a lungo democristiani i titolari del ministero della Pubblica istruzione.
Il docente della Cattolica Angelo Crespi, citato nel libro, ha scritto che “le tradizioni possono essere difese con maggior profitto da una destra conservatrice […] la triade ‘Dio, Patria, Famiglia’ è uno dei must del mondo cattolico”. Non sono affermazioni nuove, anzi. Perché nell’ultimo ventennio hanno goduto di un rinnovato fascino?
I numerosi progressi in senso laico che si sono avuti nella società italiana, dal divorzio alla legalizzazione dell’aborto fino alla revisione del Concordato del 1984, sono stati il frutto di scontri e di accordi tra lo Stato e una Chiesa che ha trovato nella transigenza lo strumento più efficace per mantenere le sue verità adattandole concretamente alla realtà di un mondo in trasformazione. Con il dissolversi del sistema-partito nell’Italia dei primi anni ‘90, la Chiesa ha avuto maggiore spazio per esercitare la sua influenza, non solo sui temi bioetici: ne è un esempio la scuola, con l’aggiramento costante dell’art. 33 della Costituzione che permette l’istituzione di scuole private (di fatto cattoliche), ma “senza oneri per lo Stato”. L’aggiramento di questo articolo è diventato più facile con la parificazione delle scuole private realizzata nel 2000 con una legge del governo D’Alema.
A suo dire, l’individualismo e il richiamo alla “tradizione cristiana” sono entrambi valori fondamentali della cultura delle destre italiane degli ultimi tempi. Non dovrebbero essere valori antitetici? Com’è stato possibile farli propri insieme?
Nella realtà storica sono valori che si sono presentati spesso assieme, nei governi di destra e di centro-destra. Il senso della comunità e della solidarietà non è implicito nella “tradizione cristiana”, che nei secoli si è confusa con il sistema monarchico o con le aspirazioni della nascente borghesia capitalistica. Pensiamo ad esempio al ruolo avuto dalla Chiesa cattolica sul tema della schiavitù, condannata solo nel 1888 dall’enciclica In plurimis di Leone XIII, che non riconobbe alcuna corresponsabilità e raccomandò piena armonia tra padroni e schiavi nella fase dell’emancipazione.
Nel testo scorrono i nomi di numerosi esponenti dell’estrema destra cattolica: Roberto De Mattei, Massimo Introvigne, Angela Pellicciari… quale influenza hanno, all’interno della Chiesa? E nel mondo di destra?
Si tratta di persone che fanno parte del mondo della Chiesa, operando al suo interno spesso in posti di alta responsabilità. Questo è il caso di Roberto De Mattei, che dirige le riviste “Radici cristiane” e “Corrispondenza romana”, insegna Storia del cristianesimo all’Università europea di Roma, collabora con “L’Osservatore romano”. Costante è, in questo senso, il suo apprezzamento per le insorgenze controrivoluzionarie e celebre resta il suo intervento del marzo 2011 a Radio Maria, in cui definì lo tsunami che aveva appena sconvolto il Giappone una espressione della “voce terribile ma paterna della bontà di Dio”.
Così Massimo Introvigne è vice-responsabile nazionale di Alleanza Cattolica, associazione che promuove la diffusione del magistero pontificio, e scrive assiduamente sul suo organo “Cristianità”, che combatte le proposte di legge sui temi bioetici e le nozze fra omosessuali o riflette sulla conversione di Napoleone a Sant’Elena. Docente di Sociologia dei movimenti religiosi presso l’Università Pontificia Salesiana di Torino, ha tenuto corsi al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum e alla Pontificia Università della Santa Croce di Roma. Forte è il nesso tra integralismo cattolico e liberismo nel Centro Studi sulle Nuove Religioni da lui fondato nel 1988, o nella Fondazione Nova Res Publica — del cui comitato scientifico egli fa parte —, nata nel 1999 per sostenere la politica di Forza Italia. Di qui l’attenzione di Introvigne per il pensiero cattolico tradizionalista del brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, e per le insorgenze controrivoluzionarie di fine ‘700.
Meno rilevante è la posizione di Angela Pellicciari, addottorata nel 1995 in Storia ecclesiastica all’Università Gregoriana, ma il suo libro del 1998 Risorgimento da riscrivere: liberali e massoni contro la Chiesa è stato raccomandato da Berlusconi per “correggere ciò che è stato scritto erroneamente”. Con questa ‘pubblicità’ in un settore, come quello storico, che è uno dei centri della mia ricerca perché essenziale alla formazione della classe dirigente, Pellicciari ha potuto continuare a presentare il Risorgimento come un attacco consapevole alla religione cattolica — del 2000 è L’altro Risorgimento: una guerra di religione dimenticata — e ha avuto da Radio Maria la responsabilità della rubrica “La vera storia della chiesa”.
Un intero capitolo (l’unico monotematico) è dedicato ad analizzare il caso Lautsi: l’iniziativa giuridica promossa da una socia Uaar con il sostegno dell’associazione contro la presenza dei crocifissi nelle scuole pubbliche. Perché questa vicenda è così importante? E perché la sentenza negativa della Grande Chambre è caduta “nel silenzio quasi assoluto della stampa”?
Il silenzio della stampa italiana è un fatto congenito, anche se riprovevole; si tende del resto a dare più rilievo alle notizie che annunciano qualcosa di nuovo che a quelle che confermano una tradizione.
Il caso Lautsi ha una grande importanza in quanto solleva al tempo stesso una questione pubblica e privata, un caso politico, religioso, giuridico e culturale che sembra insolubile in Italia. La proposta di togliere il crocifisso nelle scuole — come nei tribunali —, per il suo significato discriminatorio, è coerente con gli articoli 3 e 19 della Costituzione italiana, ma si scontra con l’ambiguità (voluta) degli articoli 7 e 8, che dichiarano ugualmente libere di fronte alla legge tutte le confessioni religiose ma rinviano ai Patti lateranensi per i rapporti fra Stato e Chiesa cattolica. La sentenza del 3 novembre 2009 della Corte europea per i diritti dell’uomo, che ha accolto la richiesta della signora Lautsi, ha messo in rilievo il valore principalmente religioso del crocifisso e quindi il suo significato educativo confessionale, e in nome della libertà di pensiero e della laicità ha dichiarato che la sua presenza era in contraddizione con un luogo in cui si impartiva una istruzione pubblica.
Altrettanto importanti sono i silenzi della sinistra e le proteste dei politici italiani di destra, che hanno difeso il carattere tradizionale, identitario e “umanistico” del simbolo — i leghisti hanno proposto di mettere una croce sulla bandiera nazionale —, e il parere dei giuristi che hanno attribuito ai decreti del 1924 e del 1928, per i quali fra gli “arredi” scolastici dovevano figurare il crocifisso e il ritratto del re, una validità non superata dalla Costituzione o dalla revisione del Concordato nel 1984. La Corte europea ha poi accolto il ricorso del governo italiano evidenziando, assieme alla debolezza dell’Unione, l’immagine di un Cristo morto sulla croce in nome non dell’umanità, ma dell’identità nazionale.
Lei ricorda che il ministro Quagliariello ha rivendicato alla destra un investimento nei think tank assai maggiore di quello della sinistra. Nel 2009 Sandro Bondi è arrivato addirittura a sostenere che l’egemonia culturale della sinistra era ormai stata sconfitta. In effetti, a leggere il libro emerge la quasi totale inerzia di chi si doveva contrapporre a questo pensiero. È solo un effetto dell’impostazione dello studio, che si concentra sulla cultura delle destre, oppure si deve effettivamente registrare un declino culturale, nella sinistra così come nel mondo laico?
È vero, vi è stato un netto declino culturale della sinistra, su cui mi soffermo nel cap. 2 del libro. Parlare della cultura delle destre è possibile, nella situazione italiana, solo in rapporto al loro principale avversario, il Partito comunista. L’egemonia culturale della sinistra non è stata sconfitta perché non è mai esistita come “egemonia”. E di fronte agli attacchi subìti a partire dagli anni ‘80 da istituzioni e riviste che ruotavano attorno al Pci, non vi è stata né una reazione significativa né la consapevolezza della perdita di terreno delle sinistre. La debolezza degli avversari è stata la condizione che ha permesso alle forze di destra di ricercare — senza raggiungerla pienamente — una egemonia culturale utile ad ampliare il consenso e a rafforzare, quindi, le loro scelte politiche.
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