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La crociata del governo contro l’omogenitorialità

L’attuale governo ha un disegno preciso: nel nome della retorica confessionalista della famiglia “tradizionale” e del natalismo, intende cancellare i diritti delle famiglie non eterosessuali, anche limitando l’accesso a tecniche di procreazione assistita e gestazione per altri. Ingrid Colanicchia affronta il tema sul numero 4/23 di Nessun Dogma

 

Che sulla “difesa” della famiglia cosiddetta tradizionale un eventuale governo di estrema destra avrebbe dato battaglia nessuno lo dubitava. Lì, a indicare la strada che verosimilmente si sarebbe percorsa, stavano tutti gli slogan e le promesse pronunciate strizzando l’occhio alla parte più conservatrice del Paese, quella che del fatto che non di “famiglia” ma di “famiglie” in tutta la loro diversità e pluralità debba parlarsi non vuole farsene una ragione: le polemiche su “genitore 1” e “genitore 2” (di fatto una fake news); la proposta di legge numero 306, prima firmataria Giorgia Meloni, che già nel 2018 puntava a estendere il raggio di applicazione delle sanzioni previste nel nostro Paese in materia di gestazione per altri anche al cittadino italiano che vi avesse fatto ricorso all’estero; quel «sì alla famiglia naturale, no alla lobby lgbt» pronunciato l’estate scorsa dalla Giorgia “donna, madre, italiana e cristiana” durante un comizio in Spagna a sostegno del partito di estrema destra Vox… e chi più ne ha più ne metta.

Vinte le elezioni e assunta da Meloni la carica di presidente del Consiglio, i presagi non hanno fatto che inverarsi, con il risultato che ci troviamo immersi in un dibattito pubblico in materia che ha del paradossale, caratterizzato com’è da un lato – di fronte ai dati sempre più bassi relativi alla fecondità nel nostro Paese (nel 2022 pari a 1,24 figli per donna) – dalla retorica del fare figli per la patria e dall’altro dalla cancellazione di qualsiasi forma di famiglia diversa da quella eterosessuale. Un cortocircuito per cui si vorrebbe un tasso di fecondità più alto a patto però che a determinarlo siano solo ed esclusivamente le coppie eterosessuali, le uniche che nel nostro Paese possano legittimamente aspirare a generare prole.

Ma andiamo con ordine e prima di vedere cosa sta accadendo tentiamo di tracciare il quadro generale in materia di riconoscimento del desiderio di genitorialità esaminando quali strade possono percorrere (e con quali limiti) le persone che per varie ragioni non possono avere figli in modo naturale.

Cominciamo dalle tecniche di procreazione medicalmente assistita (pma) che nel nostro Paese sono regolamentate dalla legge 40 del 2004 la quale, seppur notevolmente migliorata grazie ai vari interventi della Corte costituzionale, a tutt’oggi subordina l’accesso alle tecnologie per la riproduzione a un giudizio di “merito” che stabilisce chi ha diritto a tentare di diventare genitore per questa via e chi no. Di tutti i limiti della versione iniziale della legge (divieto di diagnosi pre-impianto, divieto di crioconservazione, impianto unico e contemporaneo di massimo tre embrioni, divieto di eterologa) a essere in piedi ancora oggi è infatti l’accesso riservato alle coppie eterosessuali.

La stessa legge 40, all’articolo 12, comma 6, disciplina anche la gestazione per altri (cui, ricordiamolo, secondo le stime fanno ricorso più coppie etero che coppie gay), stabilendo che «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro».

La normativa in materia di adozione (legge numero 184/83) stabilisce invece che a essa possano accedere solo «coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni, o che raggiungano tale periodo sommando alla durata del matrimonio il periodo di convivenza prematrimoniale». Mentre, all’articolo 2, prevede che possono avere in affidamento un minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo anche le coppie di conviventi o le persone singole (e negli anni la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile l’affidamento di minori a coppie dello stesso sesso).

Il quadro normativo italiano disegna quindi una precisa gerarchia rispetto al riconoscimento del desiderio di genitorialità: al vertice le coppie eterosessuali sposate (che hanno accesso anche all’adozione), poi le coppie etero non sposate (che possono accedere alla pma), infine single e coppie gay e lesbiche.

La possibilità di ricorrere all’estero a gestazione per altri o a fecondazione eterologa ha aperto però un’altra partita: quella della registrazione alla nascita (nel caso di figli di due donne nati in Italia) e della trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di atti di nascita stranieri (nel caso di gpa e di figli di due donne nati all’estero). Il quadro venutosi a creare a riguardo, a colpi di ricorsi e sentenze, ha condizionato in particolare le dinamiche relative al riconoscimento giuridico dell’omogenitorialità.

Se nel caso di omogenitorialità femminile esiste una giurisprudenza che da un lato ammette il riconoscimento e la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne (Cassazione, Sezione I, 30 settembre 2016, numero 19599 e Cassazione, Sezione I, 15 giugno 2017, numero 14878) e dall’altro non riconosce la possibilità di formare in Italia un atto di nascita con due madri (tra le altre, Corte costituzionale, sentenza 237/2019), nel caso di omogenitorialità maschile, stante l’evidenza del ricorso alla gpa, dopo una iniziale apertura da parte della giurisprudenza, a seguito di alcuni interventi della Corte costituzionale (sentenze numero 272 del 2017, numero 33 del 2021 e numero 79 del 2022) si deve ritenere preclusa la via della trascrivibilità (ma come vedremo si sono registrati comunque casi di trascrizione), rendendosi percorribile solo la cosiddetta stepchild adoption, ovvero l’adozione del figlio del partner, ipotesi che è stata riconosciuta dalla giurisprudenza anche per le coppie omosessuali, attraverso un’interpretazione estensiva del dettato dell’articolo 44, comma 1, lettera d, della legge n. 184/83, che regola l’adozione in casi particolari.

In assenza di una espressa disciplina legislativa, il compito di garantire il diritto dei figli alla certezza e stabilità del rapporto con coloro che effettivamente esercitano la funzione genitoriale è quindi di fatto demandato ai giudici. Inoltre, l’istituto dell’adozione in casi particolari presenta dei limiti, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale, che ha invitato il legislatore, per ora inutilmente, a intervenire «nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore».

È in questo complicato (e già discriminatorio) contesto che si inseriscono gli avvenimenti di questi mesi.

Il 19 gennaio il ministero dell’interno richiama i prefetti ad assicurare una puntuale e uniforme osservanza degli indirizzi giurisprudenziali espressi dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza del 30 dicembre 2022, con la quale i supremi giudici – considerando da un lato quanto stabilisce la legge italiana in materia di gpa e dall’altro «l’ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse» – hanno affermato che i bambini nati all’estero tramite gestazione per altri debbano essere riconosciuti in Italia come figli di entrambi i genitori, non con la trascrizione diretta all’anagrafe bensì con l’adozione in casi particolari (in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale), e li sollecita a fare analoga comunicazione ai sindaci.

A marzo il prefetto di Milano Renato Saccone chiede quindi al Comune di interrompere il riconoscimento dei figli delle coppie gay e lesbiche. La circolare del prefetto non si limita a trasmettere le indicazioni del governo sui bambini nati con la surrogata all’estero: sollecita a interrompere anche i riconoscimenti dei figli di due madri nati in Italia e si riserva di dare indicazioni su quelli nati all’estero da due donne.

A giugno la Procura di Padova, richiamandosi anche alla sentenza della Cassazione del dicembre scorso, notifica un atto giudiziario in cui si chiede al Tribunale di rettificare l’atto di nascita di una bambina figlia di due donne, registrato dal sindaco Sergio Giordani il 30 agosto 2017. Nell’atto viene chiesta la cancellazione del nome della madre non biologica e la rettifica del cognome attribuito alla figlia attraverso l’eliminazione di quello della seconda madre. La procuratrice Valeria Sanzari ha fatto sapere che analoghe notifiche arriveranno a tutte le 33 famiglie omogenitoriali con due mamme che hanno registrato atti di nascita a partire dal 2017 e per le quali la Procura, ad aprile, ha chiesto gli atti anagrafici.

Ma in questa fervente attività dove si colloca il superiore interesse del/la bambino/a? Come ha sottolineato tra gli altri Chiara Saraceno, in una tale situazione, «se la coppia si separa il genitore legalmente riconosciuto ha tutti i diritti sul figlio, può quindi impedire all’altro genitore (che tale è di fatto, anche se la legge non lo ha riconosciuto) di continuare a vedere il bambino.

Viceversa, il genitore non riconosciuto può sparire nel nulla, senza prendersi carico del mantenimento del figlio, dato che per la legge non ha nessun diritto ma neanche nessun dovere nei suoi confronti. Se il genitore riconosciuto muore, il bambino è automaticamente orfano e non solo il genitore non riconosciuto ma anche l’intera parentela (nonni, zii) sono per la legge inesistenti. E questo vale anche per quel che riguarda cose come l’eredità eccetera. Queste sono le conseguenze più pesanti, poi ci sono quelle più ”banali” ma che rendono complicata la vita di tutti i giorni: andare a prendere i bambini a scuola, dal medico, assisterli in ospedale, viaggiare con loro…».

Ciononostante la procuratrice di Padova di cui sopra non si perita a mettere nero su bianco che «la giovane età della bambina esclude che la modifica del cognome come richiesto possa avere ripercussioni sulla sua vita sociale»…

Sempre di giugno è poi la decisione del Tribunale di Milano – al quale la Procura aveva chiesto di annullare, sulla base di quanto disposto dai supremi giudici, le registrazioni all’anagrafe dei figli di quattro coppie omogenitoriali – che annulla (modificando il proprio precedente orientamento) la trascrizione dell’atto di nascita del figlio di una coppia di uomini nato con maternità surrogata mentre stabilisce che per chiedere l’annullamento della trascrizione dei riconoscimenti dei figli delle tre coppie di donne, nati con procreazione assistita effettuata all’estero, è necessario un altro «procedimento» di «rimozione dello stato di figlio».

«L’ufficiale dello stato civile può rifiutare di accettare una dichiarazione di riconoscimento del figlio, ma una volta che la dichiarazione sia stata accettata (anche se per compiacenza, per errore o in violazione di legge) e sia stata annotata in calce all’atto di nascita del minore, il riconoscimento effettuato non potrà essere contestato e quindi rimosso attraverso una rettificazione».

Per farlo, chiarisce il Tribunale di Milano, «sarà necessario ricorrere al modello di tutela che il nostro ordinamento prevede per la rimozione dello status di figlio (impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, disconoscimento di paternità, contestazione di stato) ossia un procedimento svolto secondo le forme e con la pienezza di garanzie del procedimento contenzioso di cognizione e con la specifica garanzia della nomina di un curatore speciale del minore onde tutelare il relativo interesse nell’ambito della procedura».

Per avere il quadro completo, a tutto ciò bisogna aggiungere la bocciatura, in marzo, da parte della IV Commissione permanente del Senato (che ha competenze in materia di “Politiche dell’Unione europea”) della proposta di Regolamento europeo sul certificato di filiazione, mirante tra le altre cose a far sì che la filiazione accertata in uno Stato membro dell’Ue sia riconosciuta in tutti gli altri Stati membri, senza nessuna procedura specifica. Motivo del rigetto: si introdurrebbe surrettiziamente in Italia la gpa.

D’altronde la battaglia contro la gravidanza per altri assorbe molte delle energie di questo governo, con ben due proposte di legge alla Camera che mirano a renderla “reato universale”: la 342 (Candiani e altri) e la 887 (Varchi e altri). Entrambi intervengono sull’articolo 12 della legge numero 40 del 2004, modificandolo in maniera che il reato di surrogazione di maternità sia perseguibile anche se commesso all’estero (in una prima versione il progetto Varchi, non specificando che la punibilità si riferiva al cittadino italiano, di fatto la estendeva anche al cittadino straniero che avesse fatto ricorso alla gpa in un Paese in cui è legale; la riformulazione del testo circoscrive ai cittadini italiani la portata della sanzione).

Ma oltre a tutte le considerazioni sin qui condotte, e senza tacere delle importanti questioni che il ricorso alla gpa pone, ha senso parlare di “reato universale”? Secondo diversi giuristi intervenuti in materia, la dicitura potrebbe prestarsi per reati per i quali la comunità internazionale ritiene giustificata una repressione ad ampissimo raggio, come nel caso di crimini di guerra o contro l’umanità: non certamente il caso della gpa, rispetto al cui disvalore non c’è unanimità di consensi neppure all’interno dell’Ue.

«Abbiamo bisogno di una vera rivoluzione culturale, di un cambiamento significativo per quanto riguarda la genitorialità. Siamo di fronte a un mondo diverso da quello dei nostri padri e anche dal nostro, ed è su questo che dobbiamo misurarci, perché non vogliamo tornare indietro, ma andare avanti». Parola di Eugenia Roccella, ministra alla Famiglia.

Considerato quanto visto fin qui, c’è da avere paura. Molta paura.

Ingrid Colanicchia

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