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La crisi fiscale dello Stato e le ricette di Alesina e Giavazzi

Mancano 3,5 miliardi di gettito rispetto alle previsioni del governo. Colpa della caduta della domanda interna. Eppure continuano ad imperversare le ricette neoliberiste, incentrate sulla libera licenziabilità, la stretta di salari e stipendi e i tagli di spesa. Ciò che, secondo Paul Krugman, alimenta la crisi.

Non ci voleva certo una laurea e un Master a Cambridge per capire che la crisi fiscale dello Stato si sarebbe manifestata in tutta la sua virulenza. Oggi le cifre ci indicano in 3,5 miliardi il buco nei conti pubblici creato dal mancato gettito Iva, dovuto al forte calo della domanda interna. L’avvitamento economico di cui ha parlato anche la Corte dei conti consiste in questo: più calano gli occupati, i salari e gli stipendi e maggiore è la diminuzione dei consumi; quest’ultima comporta un calo ulteriore del gettito fiscale al quale possono seguire, secondo le scriteriate ricette economiche neoliberiste, altri tagli alla spesa su pensioni, salari e stipendi che comportano un altro calo del gettito e così all’infinito. Il “terminus ad quem” di questo processo è la povertà e la fine di un sistema economico avanzato.

L’unico modo per interrompere questo circolo vizioso, d’altronde ben noto nella letteratura economica, è quello di stimolare i consumi mediante, non un taglio delle imposte sui redditi alti, come predicano i liberisti neoreaganiani, interessati soltanto ad acuire la distanza fra ricchi e poveri a favore dei primi, ma impieghi produttivi della spesa pubblica (cioè investimenti) e aumenti dell’occupazione (ad esempio, assunzione di insegnanti pubblici, come auspica Paul Krugman), oltre ad un efficace recupero dell’evasione fiscale e contributiva. Questo comporterebbe un progressivo aumento della domanda interna e una correlativa espansione del gettito fiscale, soprattutto quello delle imposte indirette e delle accise.

Eppure, a dispetto di qualsiasi evidenza, i neoliberisti continuano imperterriti a proporre ricette che, da sole, non comportano alcuna soluzione della pesante crisi economica. Oggi Alesina e Giavazzi asseriscono, nel loro editoriale sul «Corriere della sera», che gli interventi di tipo keynesiano prospettati dal governo Monti (i cosiddetti “project bond”, cioè titoli di debito in grado di finanziare opere pubbliche) rappresentano vecchie ricette oramai decrepite. In Italia ci vuole ben altro. Ad esempio: licenziamenti facili e una giustizia veloce che accerti chi ha ragione fra il datore di lavoro e il lavoratore che ha fatto il ricorso, pagamenti celeri da parte della pubblica amministrazione e lotta alla corruzione.

Intendiamoci: sulle ultime due proposte gli editorialisti del «Corriere della sera» hanno ragione ma esse, da sole, non risolverebbero assolutamente nulla. I neoliberisti continuano a credere che la domanda non sia un elemento fondamentale per risolvere la crisi e che tutto si giochi sulla ripresa degli investimenti. Per questo sono così convinti che la libera licenziabilità sia la chiave di volta del sistema, perché, secondo il loro pensiero, attirerebbe frotte di investitori stranieri. Che poi la domanda interna sia praticamente ferma (anzi, diminuisca), per questi signori è un dettaglio marginale. Ma, molto spesso, di dettagli si muore.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.168) 6 giugno 2012 20:01

    Come Alesina e Giavazzi sono convinto che una forma soft di schiavitù potrebbe servire a rilanciare la produzione industriale e i profitti degli imprenditori.

    Recuperare 40/ 50 miliardi di euro dai 60 dalla corruzione per rilanciare gli investimenti sarebbe cosa auspicabile, potrebbe essere l’uovo di Colombo,ma per fare questo non basta il governicchio Monti (perché tale è diventato ormai ), e credo neanche il PD da solo. La legge in discussione nel Parlamento è qualcosa di semplicemente ridicolo allo scopo. 

    Per risolvere il problema della corruzione , che affonda le sue radici nell’Italia preunitaria, ci vorrebbe che il ceto politico italiano accettasse di sottostare ai controlli di legalità sul proprio operato. Ma prima che questo avvenga ... nel lungo periodo ... saremo tutti morti.

  • Di (---.---.---.237) 15 giugno 2012 12:49

    Alesina e Giavazzi sono tipici esponenti di una classe di economisti legati - più che a un’ideologia - a una fede di tipo religioso. Il loro neo-liberismo (in realtà vetero-sudditanza al potere dell’1% di nababbi) resiste a qualunque dimostrazione sugli effetti nefasti che tale dottrina ha proditto e continua purtroppo a produrre. Come si fa a sostenere che le teorie keinesiane sarebbero "decrepite", mentre decrepito e obsoleto si è appalesato il credo sulla perfezione del mercato e sulla sua presunta capacità di "autocorreggersi"? Mi sembra evidente che non solo la storia ma neanche l’attualità insegni qualcosa a queste menti, cui purtroppo si continua a dare credibilià.

    • Di (---.---.---.17) 28 luglio 2012 14:29

      Il contenuto dell’articolo è di una verità talmente evidente che non si riesce a capire come le baggianate del liberismo (vetero e ancor più neo) possano ancora andare in giro. Persino l’attuale quarto fallimento di portata storica di detta nefasta teoria (religione) non riesce a scuotere i suoi seguaci che, tra la’ltro, sono sempre i primi a mettersi in fila (lo stanno facendo anche adesso) davanti allo Stato per chiedergli di evitare che il mercato si autocorregga,

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