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La crisi e la difesa a tre

Tra il 1997 e il 2002 il calcio italiano è entrato in crisi, d’identità oltre che di risultati. Le squadre italiane hanno pian piano perso posizioni nel ranking UEFA, i trofei continentali non cascavano più come pere mature, la Nazionale è stata brillante solo ad Euro 2000. A livello tattico il sacchismo aveva ormai terminato il suo influsso e i tentativi di innovazione di Zaccheroni non davano riscontri positivi in campo internazionale.

Oggi viviamo una situazione anche peggiore: le squadre di club sono evidentemente inferiori alle altre, anche piccole, tatticamente non tiriamo fuori idee nuove da un po’ e, a differenza di dieci anni fa, i grandi calciatori ci lasciano senza piangere. Il lippismo, fatto di zona spuria e intensità nel raddoppiare le fonti di gioco avversario, è tramontato e lo zemanismo, anche moderato, è un’isola troppo insicura.

Cosa lega le due fasi? La difesa a tre. Caso? No.



La difesa a tre, nata come idea fortemente offensiva con Cruyff nel Barcellona di inizio anni ’90, in Italia è diventata, dopo il Parma di Nevio Scala, una tattica prudente, che permette di ingolfare le zone nevralgiche del campo e allo stesso tempo di tappare le ali con raddoppi continui. Quando si affronta una sqaudra schierata con tre difensori è quasi impossibile trovarsi in sistema puro (ad es. 2 vs 2) in fase di contrattacco ed è molto difficile aggredire dalle fasce per accentrarsi. In questo senso la difesa a tre è perfetta quando si gioca per mantenere posizioni e non per trovare nuove idee, per vincere le partite da vincere e perdere quelle da perdere.

Chi emerge da questo piattume? Sembra strano ma è il Milan con Allegri che cambia spesso idea e gioca un calcio molto più europeo nel concetto di iniziativa e Montella che usa la difesa a tre ma lo fa alla Cruyff, tanto è vero che vince una partita con gol di Pasqual in ripartenza.
 

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