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La Storia, il volgo e i politicanti

Comparando l'odierno contesto socio-economico italiano con la caduta dell'Impero Romano raccontata da Salviano, da Lattanzio e da Procopio di Cesarea, emerge la drammatica riproposizione di un canovaccio altrimenti anacronistico.

Forte della sua millenaria civiltà, e pur travolto dalle invasioni barbariche, l'Impero Romano seguitò a incutere rispetto. Ma la situazione non tardò a precipitare. Questo accadde quando i molti furono messi fuori legge dai pochi, tanto che la riscossione dei tributi divenne preda privata: quindi di alcuni privilegiati che accumulavano ricchezza dalle imposte dovute al fisco. E questo non era appannaggio dei pochi posti alla sommità della gerarchia, ma riguardava anche gli ultimi; così come non riguardava soltanto i giudici, ma anche coloro che appartenevano al seguito dei giudici. Questo, dal momento che non c'era città o villaggio dove non risiedessero autocrati.

Intanto, i poveri erano sempre più sconsolati; la gente era sempre più oppressa, al punto che molte persone, pur essendo state adeguatamente educate, fuggivano presso i nemici per non soccombere sotto i colpi della pubblica persecuzione. Si affannavano a ricercare presso i barbari, attualmente intesi nella loro accezione etimologica, quella civiltà che sarebbe dovuta essere romana una volta che non potevano più sopportare tra i romani quella civiltà che avrebbe dovuta essere dei barbari. E benché le loro abitudini fossero diverse da quelle di costoro, come pure la lingua, preferivano sottostare a quel modo di vivere diverso piuttosto che subire l'imperversare dell'ingiustizia romana. Senza pentirsi di essere andati via! Perché, come annotava puntualmente Salviano, “preferiscono vivere liberi sotto le apparenze della schiavitù, che essere schiavi sotto l'oppressione della libertà”. Per questo, l'ambìto titolo di cittadino romano, che un tempo era stimato e pagato, a quel punto veniva ricusato e ritenuto addirittura esecrabile. Un po' come succede oggigiorno dalle nostre parti.



La pubblica amministrazione, sciaguratamente pilotata dagli oligarchi, provvide a censire tutti i terreni; giunse persino a numerare le viti e gli alberi. Veniva registrato il possesso di qualsiasi animale; contavano tutti gli abitanti delle città e dei villaggi. Ciascuno doveva presentarsi al Foro con i figli e con i servi. Questi ultimi subivano spesso torture per metterli contro i padroni, così come le mogli venivano messe contro i mariti. Se qualsiasi bene non rientrava nel loro computo, venivano torturati i contribuenti. In quel modo, quegli sfortunati si attribuivano pure quel che non avevano. Così come mancava la fiducia nei confronti dei responsabili del censo, per cui si inviavano controllori ai controllori, alla ricerca di altro imponibile. E così tutto raddoppiava o triplicava. Perché quello che non trovavano, lo aggiungevano arbitrariamente per non dare l'impressione di essere stati inviati invano. Quando morivano gli animali o gli uomini, si pagavano comunque i tributi, così che non era più lecito né vivere, né morire gratuitamente.

Nel frattempo, il volgo si nutriva con le ortiche che attecchivano sulle mura o tra i ruderi delle città. Per non irritarsi la bocca con quella pianta, la gente se ne cibava dopo averla bollita. Molti, tormentati dalla fame, si suicidavano, non trovando più né cani, né topi, né altri animali di cui cibarsi. “E vi fu un tale – come scriveva Procopio di Cesarea - , romano, padre di cinque figli, a cui fattisi questi d'intorno, e presolo per la veste, chiedevano di mangiare. Egli, senza gemiti e senza mostrarsi turbato, ma fortemente celando dentro di sé tutto il suo patimento, invitò i figli a seguirlo come per ricevere cibo. Giunto però al ponte del Tevere, legatasi la veste sul volto, e così coperti gli occhi, si scagliò dal ponte nel fiume in vista dei figli e dei Romani”.

Di fronte a questo a dir poco desolante contesto socio-economico, non sarebbe interessante procedere a un raffronto tra esso e quello odierno, onde derivarne le necessarie conclusioni, oltre che per ribadire l'assoluta inutilità della storia, che, dopo duemila anni, non esita a riproporre i medesimi stereotipi, i quali sono, come sempre, prodotti dalla malvagità e dall'ignoranza di quella autentica aberrazione cosmica chiamata uomo? Altrimenti, anche quello attuale sarà storicamente l'inizio di una fine. Di una tragica fine!

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