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La Rivoluzione russa fuori del mito

Difficile liberare la rivoluzione russa dai miti che impediscono di coglierne la dinamica reale. La ragione è che presto ci fu una convergenza tra la ricostruzione staliniana (sostanzialmente apologetica) e quella degli storici anticomunisti interessati a presentare la rivoluzione come un colpo di Stato di una minoranza intollerante.

 

La prima aveva ovviamente bisogno di nascondere la complessa dialettica interna che permise a Lenin di riorientare il partito staccandolo in tempo dall’abbraccio mortale della collaborazione con il governo provvisorio del principe Lvov avallato dalla Pravda diretta da Kamenev insieme allo stesso Stalin; la seconda ha sistematicamente ignorato la continua appassionata discussione nel partito bolscevico e nei soviet tra il marzo e l’ottobre, per concentrarsi sugli orrori della guerra civile successiva, o addirittura della fase del grande terrore, come se fossero la conseguenza inevitabile ed anzi voluta della presa del potere da parte dei soviet.

Come in un gioco delle tre carte viene fatta sparire la lunga preparazione di anni, i dibattiti appassionati su molti piani diversi dentro e fuori il partito. Ignorata quasi sempre la “prova generale” del 1905, con la sua lezione terribile dei morti nella “domenica di sangue”, la verifica della viltà dei borghesi “democratici”, la conferma dell’infamia di uno zar cinico e spergiuro che aveva provocato la rivoluzione con l’insensata avventura della guerra contro i “macachi giapponesi”, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto allontanare la rivoluzione e che invece l’innescò; ignorate le polemiche nel partito bolscevico tra il 1907 e il 1917, in cui molti quadri cedono al pessimismo e cercano fughe intellettualistiche, riducendo a poche migliaia i militanti che continuano il lavoro di costruzione.

Soprattutto sia i denigratori, sia i pochi apologeti superficiali del “marxismo-leninismo” di impronta staliniana, non si accorgono che nella pratica e anche nella teoria la rivoluzione del 1905 ha modificato in Lenin e in una parte dei bolscevichi la concezione del partito rivoluzionario che era stata espressa nel Che fare?, e ha fatto superare l’iniziale diffidenza nei confronti dei soviet. È questo che porta a ignorare il ruolo reale di Lenin, costretto più di una volta a impegnarsi di persona non per imporre il suo parere col principio di autorità, ma per convincere il partito disorientato e sottoposto a una grande pressione da parte dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari (che di rivoluzionario avevano solo il nome e il passato terrorista). Per questo e non certo per compiacere il Kaiser (come ripetono scioccamente giornalisti pigri) affronta in aprile i rischi politici del viaggio attraverso le zone di guerra col famoso vagone piombato, e poi in settembre viola l’ordine del comitato centrale del partito di restare al sicuro lontano da Pietrogrado e si presenta, scortato da un solo compagno finlandese, alla riunione dove la consistente ala moderata del partito stava tentando di rinviare alle calende greche l’insurrezione. Che riteneva inevitabile, perché l’esperienza di ogni rivoluzione insegnava che ogni “dualismo di poteri” non può protrarsi all’infinito, ma viene risolto dalla decisione di una delle due parti: perché aspettare che il “momento buono” lo scegliesse la borghesia?

Per convincere non minaccia l’espulsione (ne parlerà solo una volta a proposito di Kamenev e Zinov’ev quando hanno messo in pericolo il partito esprimendo il loro dissenso sul giornale di Gorkij, in quel periodo ostilissimo ai bolscevichi, ma già il giorno dopo non ne parlerà più e affiderà ai due dissidenti incarichi importanti) ma solo di dimettersi lui e di ricominciare dalla base la sua battaglia per orientare il partito. Per questo passa sopra alle vecchie polemiche e accetta volentieri nel partito molti di quelli che se ne erano separati per divergenze importanti e avevano polemizzato aspramente per anni (come Trotskij, ma anche ad esempio Lunačarskij). L’importante è l’accordo sull’interpretazione del presente e sui compiti.

Non a caso uno dei più rigorosi storici che hanno ricostruito quel periodo, Alexander Rabinowitch, spiega il rapidissimo successo dei bolscevichi in quell’anno turbolento con molti fattori, alcuni strutturali (la “comprovata debolezza dei cadetti e dei socialisti moderati e la concomitante vitalità della sinistra radicale” che a loro volta “affondavano le loro radici nelle peculiarità degli sviluppi politici, sociali ed economici della Russia durante tutto l’Ottocento”), altri soggettivi come la “magnetica attrazione della piattaforma programmatica del partito impostata sugli slogan «pace, terra e pane» e «tutto il potere ai soviet». Un programma al tempo stesso semplice e comprensibile anche a un operaio o un contadino-soldato analfabeta, ma concretizzato in modo tale da non consentire elusioni furbesche da parte del governo provvisorio, grazie allo straordinario lavoro teorico che soprattutto Lenin, un veggente in un mondo di ciechi, ha portato avanti durante tutta la guerra, e che si concretizza nel saggio popolare su “L’imperialismo”, in “Stato e rivoluzione”, ma anche in scritti oggi dimenticati ma preziosissimi, come La catastrofe imminente e come lottare contro si essa, oggi sul mio sito comeLenin e la crisi (vedi anche I consigli di Lenin).

Ma Rabinowitch conclude poi che, oltre alla paziente attenzione ai problemi e alle necessità della massa dei soldati provati da una guerra assurda e mal preparata, “un contributo non minore al memorabile successo riportato dai bolscevichi è stato fornito in gran parte dal carattere del loro partito nel 1917”.

Non alludo, qui, al ruolo di guida audace e deciso assunto da Lenin – di cui nessuno può negare l’enorme significato storico - , né alla proverbiale unità e disciplina organizzativa dei bolscevichi (in merito alla quale si è spesso esagerato); mi riferisco invece alle caratteristiche di relativa democrazia, tolleranza e decentramento ed ai metodi operativi esistenti all’interno del partito, come pure al suo comportamento di larga apertura all’afflusso delle masse – in aperto contrasto con la tradizionale rigorosa concezione leninista. (Alezander Rabinowitch, I bolscevichi al potere, Feltrinelli, Milano, 1978, pp. 353-354).

Una concezione legata alla teoria della “rivoluzione a tappe” (prima si deve completare la rivoluzione borghese…) e alle pratiche organizzative che l’esperienza del 1905 aveva consentito di modificare radicalmente, e a cui molti vecchi quadri erano rimasti attaccati.

È questo che non entra nelle teste di chi affronta questo nodo storico con pregiudizi di varia natura. Lenin ad alcuni appare inspiegabile, quando si batte per la parola d’ordine «tutto il potere ai soviet» nelle lettere da lontano e poi la lascia cadere appena la situazione muta, perché la cosiddetta “insurrezione di luglio”, (cioè l’impazienza delle strutture locali di Pietrogrado e di Vyborg, ricostruita magistralmente da Rabinowitch in decine di pagine) ha provocato per reazione un rafforzamento delle componenti moderate dei soviet, e ha offerto il pretesto per una dura repressione. Ma poi, ovviamente la riprende quando il passo falso lo fa il generale Kornilov in settembre, e i bolscevichi fanno appello dalle galere di Kerenskij alla lotta per combattere il golpista.

D’altra parte Lenin aveva costantemente corretto le sue posizioni in base all’esperienza: ad esempio rifiutando di continuare il boicottaggio della Duma dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905 come proponevano Bogdanov e Lunačarskij (vedi Colpa di Lenin) . Altro che rigido! Era sempre pronto a riflettere e modificare le sue posizioni, ed è per questo che ha potuto stabilire uno strettissimo sodalizio con Trotskij, dal 1917 in poi, nonostante tra loro se ne fossero dette in passato di cotte e di crude nelle polemiche appassionate che seguirono il Secondo congresso del POSDR. Ma concordavano sulla sostanza e sul metodo.

Una riflessione conclusiva: l’attribuzione a Lenin del merito per aver combattuto ogni rigidità e conservatorismo nel partito, non dipende dal solo Rabinowitch, ma risulta anche direttamente da un’attenta e sistematica lettura della sua opera completa, ed è importante per combattere i molti lasciti dello stalinismo anche in partiti che si dicono antistalinisti. Sarebbe bene riflettere sul fatto che questo regime interno al partito non solo permise la vittoria, ma anche la resistenza a un assedio spietato nel corso di quella guerra civile internazionale che si concretizzò nell’intervento di molte potenze a fianco della controrivoluzione delle armate bianche. Solo nel 1921 vennero codificate, nel X congresso che coincideva con la rivolta di Kronštadt, le norme che limitavano la dialettica interna. Assurdamente, proprio nel momento in cui i maggiori pericoli sembravano alle spalle. Un errore grave, che fu condiviso allora tanto da Lenin che da Trotskij, ma su cui quest’ultimo fece in tempo a riflettere continuando “l’ultima battaglia” di Lenin.

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