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La Rabbia in Moresco e Gianluca Di Dio

La rabbia o l’amarezza. Le radici dei due sentimenti sono i medesimi: l’impressione o la certezza di avere subìto un torto, una ingiustizia. Sono sentimenti spontanei, genuini, di una umanità che non deve essere guardata con fredda riprovazione.

Mi è capitato di leggere due libri abbastanza diversi. Per stile, per natura, per numero di pagine. Le “Lettere a Nessuno” di Antonio Moresco sono 800 pagine divise in due parti: la prima sono le “memorie del sottosuolo” dello scrittore non ancora pubblicato, che riceve dagli editori frustranti rifiuti. La seconda parte raccoglie le considerazioni dell’autore già edito, ma che sente di dover continuare, per un senso di integrità e coerenza, a manifestare riprovazione per sistemi, potentati, vizi, slealtà, opportunismi. Certo, da un altro punto di vista, da un’altra situazione esistenziale che non è più quella dell’allontanato, dell’appestato e scarnificato come un cristo di Grunewald.

Antonio Moresco

Antonio Moresco

 

L’altro libro è di Gianluca Di Dio, si intitola Prospero, ed è la narrazione dell’inizio della lotta armata in Italia immaginata per un futile motivo di principio. Si potrebbe parlare in termini cinematografici di una sorta di docufiction che mescola situazioni paradossali a personaggi ed eventi storici. Il motore degli eventi anche in questo caso è la rabbia. Moresco, mi sembra di intuire, non accetterebbe mai di riconoscere il proprio carattere capace di rabbia, di rancore; forse desidererebbe essere pieno solo di una infinita e olimpica rassegnazione.

Gianluca Di Dio

Gianluca Di Dio

 

Prospero, protagonista del libro di Di Dio, e Antonio Moresco hanno circa la stessa età anagrafica. Entrambi lavorano in fabbrica (Moresco ha fatto in realtà mille lavori per vivere). Entrambi hanno un livello di istruzione scolastica bassa, ma Moresco è un autodidatta formidabile e politicamente un timido militante extraparlamentare, mentre Prospero ha il carisma del leader. Li unisce la rivendicazione di qualcosa: il riconoscimento della dignità individuale, la richiesta che i propri diritti vengano quantomeno presi in considerazione.

Mathis Grunewald

Cristo di Grunewald

Su questo punto, senza voler banalizzare i due libri che contengono materia di riflessioni ben più “incandescenti”, trovo comunque importante sottolineare la condizione dell’individuo insoddisfatto. Le sfere personali quasi sempre non si compenetrano, difficilmente ci si muove empaticamente verso le richieste altrui. Questa comunicazione superficiale, questa non entrare realmente in contatto, questo non volere contaminarsi con l’altro, provoca nel soggetto debole una forte crisi interiore, la sgradevole sensazione di essere un questuante. Credo si manifesti spesso in più stadi, successivi: il porsi in forma autocritica il perché del rifiuto, il rimettere in discussione le proprie istanze, e, se i conti non tornano, alimentare la rabbia e il rancore per il diniego o l’indifferenza ricevuta.

Dettaglio dei piedi

Questo missile emotivo a più stadi, che nel suo viaggio si distacca pezzo a pezzo, quando raggiunge la cuspide della rabbia/rancore si trova ad avere a che fare con qualcosa di granitico. Si accorge di un mondo non solo fatto di sfere individuali più o meno impenetrabili, ma spesso di vere e proprie cupole, che sono le lobby professionalile connivenze create su regole non scritte e applicate in nome di una colleganza. Gli scrittori affermati e irremovibili, i critici sprezzanti e gli editori cinici per Moresco, gli avvocati pronti per le scalate universitarie, i magistrati collusi con i poteri forti di governo e polizia, la prepotenza della struttura gerarchica aziendale per Prospero.

  La mano del Cristo

Su questo elemento, di chiara origine medievale e fascista, corporativa, si parla dei colleghi come di una propaggine di se stessi. Problematizzare, polemizzare per fare emergere le contraddizioni o i malcostumi sarebbe come tagliarsi un arto e rischiare il lavoro. Chi lo fa è coraggiosamente o se preferite imprudentemente animato da una vis ribelle. Sono voci libere, senza le quali vivremmo in un mondo dove le categorie avrebbero ragione sull’ovvia distinzione individuale. Unica, necessaria precisazione è il categorico rifiuto della violenza come mezzo di espressione dei propri disagi.

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