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L’impasse italiana

Un articolo del marzo 2017 fotografava la situazione di crisi del nostro Paese, avvitato su un sistema burocratico ormai fuori controllo. Colpisce che, a tre anni di distanza, quelle parole siano rimaste attuali. Nulla è cambiato. Nel frattempo, la gestione della pandemia e i suoi riflessi sull’economia e l’organizzazione pubblica, ha reso evidenti le carenze di un modello statale da tempo inadeguato, lento, farraginoso, elefantiaco e inefficace. Si corre ai ripari ma in un clima rissoso sia all’interno che all’esterno della maggioranza e dell’opposizione. Con provvedimenti e proposte irrilevanti, concepiti come risposta marginale e contingente a criticità annose e profonde. Con il rischio di aggravare la crisi economica e sociale che inesorabilmente avanza.

LA CRISI PERENNE

L’Italia non gode di buona fama in Europa e all’estero quanto alla qualità della sua politica e dei suoi gruppi dirigenti. Il nostro Paese è amato e apprezzato per i valori culturali in senso ampio che possiede, dalla storia millenaria e densa di testimonianze artistiche e architettoniche, alla tradizione gastronomica, fino alle bellezze ambientali di grande e variegata penisola gettata sul Mediterraneo. Ma l’apprezzamento generalizzato fa a botte, appunto, con la critica per la gestione di quest’immenso e invidiato patrimonio. Così, gli altri partner europei, sebbene molto severi e poco solidali, continuano ad avere buon gioco nel puntare l’indice contro forme di assistenza che temono, in sostanziale accordo con l’opinione pubblica continentale, possano finire in rivoli d’inefficienza e di diffusi fenomeni corruttivi. La mancanza di riforme ritenute essenziali, alimenta questa sensazione di arretratezza e di confusione che, del resto, non è estranea agli italiani più avveduti ed intellettualmente onesti.

LA PANDEMIA E I SUOI EFFETTI

La gestione della crisi pandemica non la si può, oggettivamente, criticare con toni aspri: il Paese ha retto, nonostante l’alto numeri di decessi e l’impreparazione ad affrontare questo genere di emergenza. Naturalmente, il lockdown si è reso necessario anche per contrastare gli effetti dirompenti di un contagio verso le regioni del centro sud, molto più arretrate in termini di rete medico-ospedaliera, rispetto alle più ricche e meglio organizzate aree del centro nord. E se è stato difficile anche lì, rimane ampiamente condivisibile la scelta del Governo di bloccare per tempo l’epidemia verso il meridione. Eppure, nonostante l’evidenza di un Paese diseguale per organizzazione sanitaria, questa condizione non sembra aver trovato conforme e radicale azione di revisione delle politiche d’investimento in questo settore cruciale per la salute dei cittadini. D’altra parte, rimane problematica la gestione del sistema scolastico, anche questo gravato da ataviche carenze strutturali e di programmazione. E poi, per scendere nei diversi settori dell’economia reale, la macchina dell’INPS ha mostrato prevedibili carenze nell’erogazione della cassa integrazione, oggettivamente gravata da una legislazione farraginosa e inutilmente complessa, mentre sul versante degli aiuti alle imprese, piccole e grandi, si è rilevata la difficoltà dello Stato a comprenderne i meccanismi produttivi e le necessità finanziarie effettive, scavando un ulteriore solco tra l’azione pubblica e quel tessuto fittissimo e variegato, per nulla protetto e incoraggiato, delle piccole e medie imprese italiane, spina dorsale del nostro Paese. L’effetto è una caduta dell’occupazione, molti fallimenti in previsione dell’autunno e dell’inverno prossimi, l’accentuazione delle disparità sociali e il probabile incremento delle attività criminali e della relativa sottocultura che le alimenta.

LE RIFORME CHE MANCANO

Una delle questioni che uno specialista della comunicazione rileva immediatamente è la discrasia tra gli annunci della politica, a livello governativo, e gli effetti concreti che ne conseguono: esigui, modesti, a volte striminziti o inconsistenti. Questa condizione, oggettivamente frustrante per gli organi di governo, trova fondamento critico in un’organizzazione statale che non conosce i valori d’efficienza e d’efficacia tipici delle imprese private, un sistema che si è basato su garanzie pubbliche che non coincidono quasi mai con quelle delle maestranze private, una macchina statale che non conosce l’importanza della rapidità nell’erogazione dei servizi e non comprende l’esigenza di relazionarsi con l’impresa privata attraverso la riduzione drastica delle incombenze a favore della produttività. Dunque, quanti sono gli ambiti pubblici meritevoli di riforme urgenti? L’elenco è semplice: tutti. Dalla sanità, al sistema fiscale, dalla previdenza alla scuola, dall’università alla ricerca, dagli appalti alla tutela ambientale, dalla giustizia, civile e penale, fino al sistema carcerario. E non è da escludere un ripensamento del ruolo delle Regioni e dei Comuni, in attuazione di una riforma istituzionale che appare marginale solo a chi non abbia voglia di vedere le origini della crisi generale che attanaglia il nostro Paese. Mentre l’iniziativa dei cosiddetti “stati generali” è sembrata inconcludente, anche dall’opposizione non giungono indicazioni concrete sulle azioni da intraprendere. La politica respira aria di propaganda e non di consistenza.

BUROCRAZIA E DEBITO PUBBLICO

Due grossi macigni pesano sulle possibilità d’uscita dalla crisi. Da una parte la complessa e inadeguata macchina burocratica, che agisce attraverso procedure che tutelano la dirigenza nell’atto della decisione, vincolandola ad una vasta congerie d’incombenze che ricadono sui cittadini e sulle imprese. Perché procedure così farraginose e a volte insensate? A causa della bulimia di norme contraddittorie e pletoriche che ingessano la burocrazia e la rendono fragile di fronte all’eventuale azione giudiziaria. Ma non basta. Si sono formati grumi clientelari che si alimentano di normative difficili da maneggiare, provocando distorsioni nel campo della concorrenza. La burocrazia in Italia è uno dei poli del problema nazionale. L’altro polo è il debito pubblico, che rende strutturalmente debole il nostro Paese, rallentato dall’impossibilità di investire nel miglioramento dei comparti e delle opere che agevolano l’economia. Quali settori e quali comparti? Proviamo fare un breve e non certo esaustivo elenco: una rete telematica a basso costo, capiente e veloce; riduzione dei costi per l’energia; riduzione drastica di tasse e tributi, riduzione poderosa del costo della tassazione sul lavoro e dei contributi previdenziali obbligatori sulle piccole e medie imprese; livelli d’infrastrutturazione molto elevati, con interventi verso una reale intermodalità, l’incremento e l’infittimento dei collegamenti ferroviari e marittimi; investimenti sulla tutela dell’ambiente, sia in ottica sanitaria che per il miglioramento del turismo; incremento di investimenti e di organici per settori chiave come la sanità e la giustizia; reale protezione sociale per i ceti più deboli; politiche d’immigrazione degne di un Paese civile, volte a favorire un’integrazione corretta, articolata, controllata e produttiva; risorse molto elevate da destinare alla scuola, per l’università e per la ricerca. Così cambia un Paese. Ma senza abbattere il debito pubblico non lo si potrà mai fare. Come realizzare questo sogno di liberazione? In molti modi e non necessariamente con politiche depressive, come da tempo segnala il lavoro divulgativo di Carlo Cottarelli. Ma non solo. Lo si può fare semplificando la tassazione attraverso un patto tra Stato e contribuenti ed aumentando, per questa via, il gettito; concedendo gran parte del patrimonio demaniale ai privati per attività produttive, ad esempio quelle legate alla portualità turistica nella quale un Paese di grande tradizione marittima come il nostro è carente; incrementando fortemente il valore delle concessioni pubbliche, come nel caso delle strade e delle autostrade o nell’ambito del patrimonio immobiliare di proprietà pubblica; rimodulando il fabbisogno dello Stato, che occorre conferire a filoni di spesa utili all’interesse generale dell’economia e allo sviluppo, che facciano crescere la produttività, evitando di alimentare sacche di parassitismo, come nel caso della spesa regionale incontrollata. E destinando parte delle risorse aggiuntive all’abbattimento pluriennale del monte debitorio. Ma qui, purtroppo, la politica dei compromessi al ribasso si arresta alle esortazioni e agli auspici generici: una fitta rete di interessi e di categorie protette si frappongono e si coalizzano in una miriade d’impedimenti.

DELEGIFICARE E SEMPLIFICARE

L’Italia è la nazione con il record delle leggi in vigore: tra nazionali e regionali, il computo supera, per difetto, il numero di 150.000. In Europa, la Germania ne conta 5.500 e la Francia 7.000. Inoltre, nel nostro Paese, il numero delle leggi “autoapplicative” rimane esiguo, con produzioni legislative che prevedono ciascuna almeno 2/3 decreti attuativi. Si tratta di una patologia che ha eroso e continua ad erodere la parte sana del Paese e favorire, peraltro, sacche sempre più ampie di corruzione. In ogni settore. È necessariamente da qui che occorre ripartire, riducendo i centri di emanazione legislativa - come i consigli regionali - costituendo testi unici fortemente semplificati. E redigendo documenti normativi che possiedano uno stile ed un linguaggio semplificato e inequivocabile: è dalla scrittura degli atti che si vede la qualità della politica e della burocrazia.

AUSPICI CONCRETI

Tolta la parentesi degli anni ’80, il nostro paese non cresce da un trentennio. Pur possedendo potenzialità formidabili. Oggettivamente, non ci sono grandi speranze all’orizzonte. La classe politica è molto al di sotto delle qualità e della preparazione che dovrebbe possedere: coraggio e visione riformista. Gli elettori scelgono il “meno peggio”, ormai disillusi e sempre più spesso assenti dalle urne. In questo solco, cresceranno i divari sociali ed economici, la migrazione verso altre nazioni, la miseria intellettuale e la qualità dei servizi pubblici, in un contesto fortemente critico anche sul versante preoccupante delle attività criminali e delle mafie. Accadrà se non s’inverte la tendenza all’impoverimento delle classi medie. Con il pericolo che si affermi la figura dell’uomo o della donna del destino o della provvidenza. Più che una soluzione, il peggiore dei mali.

Foto: Palazzo Chigi/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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