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L’anarchia è un’altra cosa (ma Manganelli non lo sa)

Riprendo dal Manifesto del 18/5/12 un comunicato della redazione di “A”, vicina alla vera FAI, naturalmente ignorato o relegato in un angolino dalla maggior parte della stampa. Con un mio commento, in coda…

La Federazione anarchica italiana è stata fondata a Carrara appena finita la seconda guerra mondiale. Centinaia di militanti anarchici, rispuntati dall'esilio, dalla clandestinità, dal partigianato, alcuni dalle carceri, si incontrarono nella città-simbolo dell'anarchismo di lingua italiana per dar vita a quella che fu per un ventennio la casa della quasi totalità degli anarchici di lingua italiana. 

Alcuni gruppi, alcune individualità preferirono restarne fuori e questo non ha mai costituito un problema, proprio per lo spirito libero e libertario che da sempre caratterizza l'associazionismo degli anarchici. Poi dissensi proprio sulle modalità organizzative, nuove sensibilità nate soprattutto a partire dal '68 e altri fenomeni hanno progressivamente portato la Fai ad essere una delle componenti del movimento anarchico, seppure di sicuro la più longeva e la più grande.

Tra l'altro la Fai gestisce il settimanale Umanità Nova che esce regolarmente dal 1945, ricollegandosi non solo in via ideale al quotidiano fondato da Errico Malatesta nel febbraio 1920 a Milano e durato per quasi tre anni, fino all'epoca della marcia su Roma (ottobre 1922). E ci piace ricordare che anche durante il fascismo, clandestinamente o all'estero, qualche numero di Umanità Nova non mancò di squarciare il totalitarismo.

La Fai per noi è questa: la Federazione anarchica italiana, con la quale da sempre abbiamo ottimi rapporti, evidenziati anche dal fatto che tra i nostri collaboratori più costanti e significativi alcuni siano militanti di quell'organizzazione: innanzitutto Massimo Ortalli, che per noi di fatto è un redattore di questa rivista. E poi Maria Matteo, Antonio Cardella e altri ancora.

Noi di A non siamo militanti della Fai. Quando A nacque oltre 40 anni fa, la redazione era composta quasi esclusivamente da militanti dei Gruppi anarchici federati, un'organizzazione prevalentemente giovanile che poi si esaurì nella seconda metà degli anni '70. In quanto tale, però, la rivista non ha mai fatto riferimento esclusivo a una "componente" dell'anarchismo organizzato, in una tradizione di apertura che in Italia è caratteristica prevalente delle varie testate, a partire proprio da Umanità Nova che, pur essendo "della Fai", è sempre stata aperta.



Che se ne faccia parte o no, questa è la Fai, la nostra Fai. Da qualche tempo ce n'è un'altra in giro, che vigliaccamente utilizza lo stesso acronimo, ma la cui ultima lettera sta per "informale" invece che "italiana". Si tratta di un'operazione sporca, che sia opera di "compagni" o dei servizi segreti o di chi altro. Sporca, comunque. È grazie a questa scelta (provocatoria, si sarebbe detto in altri tempi) che in queste settimane i mass-media si permettono di ripetere che la Fai gambizza, la Fai ha imboccato la strada della lotta armata, la Fai... Senza nemmeno più il pudore o l'attenzione di dire la Fai informale.

Abbiamo seguito su A fin dall'inizio le gesta di questi informali, il loro uso della violenza, fisica e verbale. Li abbiamo seguiti e li seguiamo con l'attenzione e la preoccupazione che meritano, come ogniqualvolta si vuole confondere l'anarchismo con la violenza, il terrorismo, la vendetta, ecc. Abbiamo attraversato gli anni '70 e '80, stimolando dibattiti, approfondendo, discutendo, ma soprattutto marcando per quanto possibile il baratro che ci divide da chi - in qualsiasi luogo, dal Potere ai movimenti - ritiene che violenza e anarchia facciano rima. Non fanno rima. A meno di stravolgerne il senso. Come fanno gli informali con sigla FAI. 

 Premetto che in 55 anni di militanza spesso ho collaborato con compagni anarchici, a volte anche polemizzando appassionatamente, ma sempre con la convinzione di stare dalla stessa parte nella lotta contro le ingiustizie. Mai ho trovato traccia di quell’anarco-insurrezionalismo che invece riempie spesso le pagine dei giornali, e che per giunta mi sembra abbia al suo interno un concetto estraneo alle loro concezioni: l’insurrezione ha sempre bisogno di quell’organizzazione che gli anarchici considerano un male assoluto…

Gli attacchi alla FAI d’altra parte sono troppi per essere casuali, o frutto solo della fantasia di giornalisti superficiali: tanto più che partono da molto in alto.

Il capo della Polizia Antonio Manganelli, al margine delle celebrazioni del 160° anniversario della fondazione della Polizia e alla presenza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha assicurato che l’'anarco-insurrezionalismo, al momento, rappresenta ''l'unico terrorismo che può offendere il nostro paese''. Manganelli pur sostenendo che non è più il ''fenomeno brigatista” o il “terrorismo internazionale'' a destare preoccupazioni, ha ugualmente suggerito una pista internazionale: le “cellule greche” del misterioso anarcoinsurrezionalismo, che hanno annunciato che “faranno il salto di qualità fino all'assassinio''.

Naturalmente Manganelli ha almeno una “spalla”: il generale dei carabinieri Giorgio Piccirillo, già vicecomandante dell’Arma, e ora Direttore generale dell’Agenzia Informazioni e sicurezza interna, AISI, che anzi lo aveva preceduto dichiarando anche lui di fronte a una commissione parlamentare che ''gli anarchici stanno facendo un salto di qualità”. Salvo ammettere che “i numeri dell'organizzazione (che lapsus!) sono difficili da quantificare''. Cioè non sappiamo se sono tre o più, ma sono un pericolo comunque… Piccirillo era stato sentito dalla Commissione Affari Costituzionali nell'ambito di un'indagine conoscitiva sui “recenti fenomeni di protesta organizzata in forma violenta in occasione di manifestazioni”. Ecco l’obiettivo sicuro: la protesta organizzata da sprangare senza se e senza ma! Ed effettivamente non importa “quantificare”, basta fare un identikit utile per rastrellare quelli che protestano additandoli al pubblico ludibrio come “insurrezionalisti”.

Naturalmente non poteva mancare l’avallo del presidente Napolitano, che ha raccomandato alla polizia di “tenere alto il livello di attenzione” a tutti i livelli: sia per “fronteggiare l'immigrazione clandestina”, sia per “affrontare con coraggio e senso di responsabilità anche vicende spinose”. Inutile domandarsi quali sarebbero. Napolitano lo precisa subito: si tratta di “gestire con il necessario coordinamento ed in modo più efficace e flessibile situazioni di ordine pubblico e di tensione sociale”. Non lo avevamo sospettato…

Ma i limiti della decenza sono oltrepassati quando Napolitano, che quando era comunista aveva conosciuto certamente le sopraffazioni della Polizia (a volte anche uccisioni) nei confronti di chi scioperava o chiedeva lavoro, gli insabbiamenti delle inchieste per decenni (proprio il giorno prima aveva partecipato ai tardivi funerali di Placido Rizzotto, uno dei tanti sindacalisti della CGIL assassinati perché facevano bene il loro lavoro…), ha avuto il coraggio di esaltare “i valori più autentici di una forza di Polizia nata dal Risorgimento, capace di accompagnare il Paese in tutta la sua storia e di porsi al servizio della Costituzione repubblicana”. Che vergogna, e che menzogna. Ancora alla metà degli anni Cinquanta, quando ho cominciato a far politica, più volte sono stato fermato dalla Polizia con mille pretesti a scopo intimidatorio, ad esempio perché diffondevo “l’Unità”. Più volte, quando ingenuamente citavo la Costituzione (avevo solo 18 anni), mi sono sentito dire testualmente: “Noi non la conosciamo, noi ci basiamo sul Testo unico di PS”, cioè sul Codice rocco dell’epoca fascista. Ma Napolitano ha scordato tutto, ed è preoccupato evidentemente per le “situazioni di ordine pubblico e di tensione sociale” che la politica feroce del “suo” governo Monti può provocare. Allora esalta la polizia e avalla la caccia all’untore, anarchico e magari anche greco…

PS. Ai funerali di Placido Rizzotto c’era anche la Camusso: possibile che non si vergogni di usare i meriti di quel sindacalismo combattivo ed eroico, per farne merito alla CGIL di oggi, che accetta tutto e invece di lottare fa le gite? (vedi 2 giugno: un vecchio vizio).

PPS. Qualcuno può non condividere il giudizio dei compagni della redazione della rivista anarchica “A” che ritengono che il ferimento del dirigente dell’Ansaldo sia un’operazione sporca, e accennano all’ipotesi di un ruolo dei servizi segreti. Io naturalmente non ho elementi per valutare il caso specifico genovese: so solo che in molti casi le polizie più o meno segrete usavano infiltrare dei provocatori tra i rivoluzionari. Ce ne sono stati molti di casi accertati, il più clamoroso è quello di Evgenij (Evno) Azef nella Russia zarista. Costui era stato introdotto dall’Ochrana tra le file dei socialisti rivoluzionari allo scopo di «sorvegliare i terroristi ed impedire attentati contro lo Zar; poteva invece aiutare ad organizzare altri attentati e di tanto in tanto lasciarli arrivare anche ad esecuzione, perché altrimenti sarebbe diventato sospetto ai rivoluzionari» (Valentin GITERMANN, Storia della Russia, La Nuova Italia, Firenze, 1963, vol. II, p. 487). Azef per molto tempo svolse accuratamente il suo lavoro sporco, facendo fallire solo gli attentati contro la zar, ma conquistandosi la fiducia del suo partito per parecchi colpi ben riusciti. Tuttavia, almeno una volta, tradì i suoi padroni, quando non avvertì dell’attentato contro il ministro degli Interni Vjaceslav Pleve, che riuscì perfettamente il 15 luglio del 1904. Ma Pleve era l’organizzatore dei pogrom (aveva lanciato la parola d’ordine «soffocare la rivoluzione nel sangue degli ebrei» e Azef era di origine ebraica e «tremava di collera» ogni volta che ricordava il ruolo antisemita del suo datore di lavoro). (ivi, pp. 490-491). Verrà comunque scoperto nel 1908, ma le lungaggini del «processo» (affidato a un giurì di provati militanti) gli permisero di fuggire e andare a godersi sul Mediterraneo le laute ricompense ricevute dalla polizia (cfr. Victor SERGE, Vita e morte di Trotskij, Laterza, Bari, 1979, pp. 22-24). La figura di Azef è stata rievocata letterariamente da Moravia nel suo romanzo 1934, che ha tra i protagonisti una ex socialista rivoluzionaria che avrebbe dovuto uccidere la spia. Alberto MORAVIA, 1934, Bompiani, Milano, 1982.

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