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L’Arabia e l’orgoglio laico

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L’Arabia Saudita è l’unico stato al mondo in cui, nel nome ufficiale, compare il cognome della famiglia regnante. È una monarchia assoluta in cui il sovrano è anche primo ministro, e in cui diversi ministri fanno parte della dinastia saudita. Il re, “custode delle due sante moschee”, detiene anche la massima carica religiosa del paese, nella cui bandiera è presente un motto che rivendica la fede in Allah e la devozione a Maometto. Lo stato arabo si basa sulla dottrina wahhabita, un’interpretazione particolarmente retriva e integralista dell’islam, che diffonde nel mondo a suon di petrodollari. Le donne non possono guidare. Però hanno ottenuto da poco di poter votare alle elezioni locali. Wow.

In Arabia il re è morto, viva il re. È quanto deve aver pensato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che ne ha lodato la persona per aver “intrapreso passi importanti per far avanzare, nella regione araba, l’iniziativa di pace”. Forse si riferiva a quella eterna, abitualmente comminata agli oppositori. L’Arabia Saudita nel 2013 è stato il quarto paese al mondo per numero di esecuzioni, che hanno luogo in pubblico per decapitazione o lapidazione e sono state eseguite anche su minorenni. Le lacrime di Obama sono fatte della stessa sostanza di cui è fatto l’oro nero.

Per l’Occidente l’Arabia Saudita è un alleato di cui non si può fare a meno. Ragion per cui, nessun problema se un paese simile fa parte del Consiglio Onu per i diritti umani. Nessun problema nemmeno per le altre religioni: Abd Allah bin ʿAbd al-ʿAziz Al Saud, meglio noto come Abdullah, circa il decimo dei 42 figli del fondatore del regno, si è speso molto — e ha speso molto — per dare vita a un’alleanza interconfessionale.

Cristiani, musulmani, ebrei, induisti, buddhisti: tutti devotamente insieme. In funzione, ovviamente, anti-atea. Una politica applicata senza esitazioni: in Arabia, gli atei sono stati equiparati dalla legge ai terroristi. Nel completo silenzio dei suoi alleati politici e religiosi. L’abbazia di Westminster è persino arrivata a tenere la bandiera a mezz’asta per onorare il defunto sovrano di un paese dove il cristianesimo è, di fatto, illegale.

Nel paradiso saudita basta una vaga critica all’unica religione ammessa per finire in carcere. Carcere duro, ovviamente. Due settimane fa al noto attivista e blogger Raif Badawi sono state impartite cinquanta frustate, le prime cinquanta delle mille a cui è stato condannato insieme a dieci anni di prigione. Le sue condizioni di salute sono pessime. Il suo avvocato si è a sua volta beccato quindici anni. La moglie e i tre figli di Badawi sono ora in esilio in Canada. Di quale grave reato si sarà mai macchiato Badawi? Ha criticato l’islam e i suoi rappresentanti terreni, ed è stato quindi accusato di apostasia. Da un certo punto di vista gli è andata anche bene: per l’apostasia, in Arabia, è prevista la pena capitale.

I nostri post, i vostri commenti, hanno contenuti ben più critici. Ma non riceviamo sulla carne viva alcuna frustata. Prima frustata, seconda frustata, terza frustata… è difficile anche solo immaginare cosa possa significare. Esiste un video della pubblica fustigazione, ma non rende in alcun modo l’idea. Anche se un’idea comunque la dà: meglio evitare come la peste ogni paese dove vige la sharia. Paesi nei quali essere atei comporta la pena di morte. E tanti auguri al personale Alitalia che dovrà fare scalo ad Abu Dhabi, quartiere generale del suo nuovo principale azionista. Bocche cucite, mi raccomando: sia mai che vi arrestino.

Mette un’infinita tristezza constatare quanta gente è disposta a passare sopra a tanto schifo soltanto in nome e a gloria del proprio business. Gente che, se ne avesse la possibilità, farebbe business anche con lo Stato Islamico: che, come hanno notato diversi commentatori (Bernardo Valli su Repubblica, Viviana Mazza sul Corriere della Sera), adotta la stessa ideologia e gli stessi metodi dei correligionari sauditi.

Ma se c’è molto di cui rattristarsi, c’è anche qualcosa di cui andare orgogliosi. Il diffuso disprezzo suscitato dall’applicazione fisica della sentenza ha spinto le autorità saudite a sospendere la seconda razione settimanale di frustate: sanno bene quanto sia inumano il loro codice religioso.

Se da noi la situazione è diversa, è perché all’inumanità del codice religioso si è sostituito, dall’illuminismo in poi, la volontà di costruire una civiltà basata sui diritti umani. È difficile farlo oggi, ma bisogna immaginare un’Arabia felice. E impegnarsi perché lo diventi realmente.

Raffaele Carcano

Questo articolo è stato pubblicato qui

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