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L’America non sa più pensare il mondo

Per anni la strategia globale degli Stati Uniti ha trascurato l'analisi del territoro, legittimando i proprii interventi nel mondo attraverso lo strumento della legalità formale. Ma l'ingoranza della complessità globale ha impedito a Washington di realizzare i risultati sperati. Dopo le sconfortanti esperienze dell'ultimo ventennio, la transizione in Maghreb finirà per esserne l'ennesima conferma.

Nei primi anni Novanta, l'analista Joseph Fitchett scrisse che la costruzione degli Stati Uniti nell'Ottocento era stata imperniata sulla geografia; terminata l'espansione ad ovest, il Paese non ha più saputo pensare il territorio, complice il fatto che, a parte la Guerra di secessione, gli altri eventi bellici che li ha visti protagonisti hanno avuto luogo negli altri continenti.

La risposta di Fitchett a questa inversione di tendenza fu che la cultura statunitense, cresciuta nel socratico rispetto della legge come strumento in grado di formare e modificare ogni realtà, abbia rimpiazzato la consapevolezza del territorio attraverso il surrogato legalistico.

Nessuno più degli Stati Uniti ha costruito le proprie fortune su questa logica. E nessuno più di loro sa quanto sia importante rintracciare un fondamento giuridico che sia alla base di ogni azione e reazione. L'invasione in Iraq ne è stato l'ultimo grande esempio. Chi non ricorda i discorsi sulla ragionevolezza dello jus ad bellum (guerra preventiva), o il gesto del vicepresidente Dick Cheeney, che sventolò all'Assemblea dell'Onu una provetta (finta) per dimostrare l'esistenza di armi di distruzione di massa negli arsenali di Saddam?

La legittimazione, dunque, è sempre stata l'assillo della politica estera americana, ed era la condizione indispensabile per riportare sulla retta via (quella tracciata da Washington) ogni evento avverso alla visione dello zio Sam. Ma il sacro rispetto della legge richiedeva un motivo alla base dell'intervento. Coaì l'evento geopolitico non gradito veniva rivisto e presentato come un pericolo che insidiasse i valori universali di unità e giustizia, determinando uno stato d'emergenza. Nulla più dell'eccezionalità giustifica un provvedimento adottato in deroga alle norme ordinarie, essendo fine ultimo dell'azione il ristabilimento dell'ordine sconvolto.

Questa ricostruzione portava però ad un paradosso: poiché la legge è espressione della sovranità popolare, la legittimazione giuridica all'intervento poteva anche prescindere dalle motivazioni, essendo sufficienti il consenso e il mero rispetto delle forme. L'archetipo della legalità (formale) a tutti i costi, la caduta del blocco sovietico e la sicurezza del soft power esercitato su interlocutori vicini e lontani, convinsero che la costruzione del nuovo paradigma geopolitico fondato sul Washington consensus non avrebbe più incontrato ostacoli dopo il 1989.

Al contrario, quando negli anni Novanta il gigante americano si imbarcò nelle spericolate operazioni di nation building volte a costruire la democrazia laddove c'erano solo guerre e miseria, terre remote come la Somalia, Haiti e la Bosnia erano solo dei piccoli insignificanti Stati che la potenza d'oltremare avrebbe presto redento a suon di soldi e soldati. Ciò senza tener in conto le peculiarità culturali, etniche e geografiche sulle quali la loro azione sarebbe andata ad incidere. Per intervenire era necessario il consenso degli americani. Non quello non gli altri.

Pensare in termini globali ha portato Washington a trascurare le realtà locali, come chi passando un tempo esagerato davanti ad uno schermo gigante diventa troppo miope per focalizzare i dettagli minuscoli. Con ciò ponendosi talvolta in contrasto con gli stessi alleati.

Quando nel 1992 il presidente Bush (padre) incontrò l'omologo francese Mitterand per decidere il da farsi in merito alla crisi jugoslava, fu sconcertato dalla varietà di popoli, lingue, religioni che caratterizzavano il caleidoscopio balcanico.

È un fatto: quando le carte si fanno troppo colorate gli americani vanno in tilt. E come affetti da un daltonismo reattivo finiscono per ignorare quei cerchietti colorati che imbrattano le mappe, posti lì a raffigurare popoli e culture, nella ferrea convinzione che gli unici spazi che contano davvero sono quelli circoscritti in confini palesemente definiti. Poco importa se quei cerchietti, spesso e volentieri sovrapposti a complicare ancor di più il lavoro dell'interprete, rappresentino in realtà le menti e i cuori di chi quei luoghi li abita da secoli. E che in molti casi sottendono rivendicazioni storiche inestricabilmente connesse e quasi mai risolte.

La sfolgorante policromia dei Balcani parve accecare l'inquilino della Casa Bianca. Il quale preferì defilarsi dalla questione, ufficialmente perché non voleva “che la Jugoslavia diventasse un nuovo Vietnam”, complice il fatto che le elezioni erano alle porte e lui aveva fondato la sua campagna elettorale soprattutto sulla politica interna.

Pochi anni dopo fu il Kosovo a seminare discordia: gli Usa rimproveravano all'Europa le difficoltà di coordinazione tra l'imponente macchina bellica made in Usa e quella meno futuristica del Vecchio continente, e l'Europa si lamentava che la visione strategica degli Usa non tenesse il benché minimo conto della realtà del campo.

Arriviamo all'Afghanistan prima e all'Iraq poi, dove da circa un decennio gli americani pagano (rectius: tutti noi paghiamo) la scarsa lungimiranza di chi (sempre un Bush) era andato lì armato di fucili e belle parole senza fare i conti con un tessuto socioculturale e umano di cui nessuno aveva (e ha ancora) capito alcunché. Basta aprire un qualunque libro di storia per farsi un'idea della complessità dello scenario demografico e culturale afghano, in buona parte frutto degli errori commessi dall'Occidente nei secoli e decenni passati. A cominciare dalla Linea Durand1.

L'ignoranza del territorio manifesta tutta la sua gravità proprio nel continente africano, dove la fallacia dei confini fai-da-te ha condannato ogni lembo di terra alla perpetua instabilità. Quasi tutti gli Stati africani sono entità artificiali i cui confini furono arbitrariamente tracciati nelle lontane Londra, Parigi, Lisbona, Amsterdam. In totale indifferenza per le etnie che abitavano quei territori da sempre. E così è del tutto normale che un popolo sia diviso sotto due o più bandiere o che, peggio ancora, due o più etnie convivano sotto la stessa (come in Burundi e soprattutto in Somalia, e in entrambi i casi ogni commento è superfluo).

Calato il sipario sul Grande Gioco prima e sull'era coloniale poi, le grandi potenze presero baracca e burattini per far ritorno nei ranghi del Vecchio continente, lasciando ai locali l'illusione di essere protagonisti della scena. Ma costoro, il più delle volte insoddisfatti delle convivenze forzate stabilite a migliaia di chilometri di distanza, hanno finito per imbracciare le armi e scannarsi tra loro. E subito noi siamo corsi lì, come e quando ci ha fatto comodo, ma sempre senza menzionare la nostra parte di responsabilità nella gestione della decolonizzazione.

Perché se in alcuni casi i confini furono dettati da necessità amministrative o da vincoli naturali, in alti furono tratteggiati al preciso scopo di alimentare rivalità che estenuassero i contendenti di turno, affinché l'influenza dell'ex madrepatria non venisse mai del tutto meno. Allora nessuno pensava che lasciare i territori sull'orlo del baratro avrebbe esposto l'Europa a dei rischi incalcolabili, non ultimo l'immigrazione incontrollata.

L'incapacità dello Zio Sam di intervenire nelle realtà locali è nasce dall'amara consapevolezza che ogni contesto influenza quelli vicini. Che i problemi sono legati gli altri altri, per cui non si può toccare un filo senza rischiare di spezzarne un altro. E che le dispute, sebbene locali, finiscono sempre per interessare un piano più ampio, diventando regionali. E quindi, globali.

L'avvento di Obama era sembrata a tutti l'alba di una nuova era.


Il suo spirito di dialogo e la considerazione dei grandi fori sovranazionali come luogo di confronto sono le ragioni che hanno convinto l'Accademia di Oslo ad insignirlo del Premio Nobel per la Pace. Fin dagli inizi del suo mandato, inoltre, Obama ce l'ha messa tutta per riallacciare le relazioni con i Paesi arabi. Lui sa che l'Islam è parte dell'America (nel Paese ci sono sette milioni di musulmani), come lo è della sua storia personale, avendo il giovane Barack trascorso parte della sua infanzia in Indonesia.

Sotto questo aspetto, il discorso del Cairo (4 giugno 2009) è stato una pietra miliare non solo nella politica estera del neopresidente, ma dei rapporti tra Occidente e Islam in generale. Mai prima di allora un inquilino della casa Bianca si era rivolto all'Islam con tanto rispetto. Un rispetto necessario per ricucire lo strappo col mondo arabo in conseguenza del ciclone Bush e per trattare con l'Iran la (improbabile) rinuncia al suo programma nucleare senza ricorrere alle maniere forti.

In realtà, la politica di Obama si è rivelata più una versione edulcorata del neoconservatorismo di Bush che qualcosa di nuovo. Aldilà delle attese interne ed estere, (in primis dell'Europa, che si era spellata le mani al momento della sua elezione), gli analisti più accorti non potevano dire di non esserselo aspettati. Obama aveva speso la sua intera campagna sulle questioni interne, dedicando alla politica estera solo un discorso in cui definiva la guerra in Iraq “sbagliata perché inventata” e quella in Afghanistan “giusta perché necessaria”. Come a dire che la prima era la guerra di Bush, e la seconda, invece, la sua. Nel primo biennio del suo mandato, grane con Israele a parte, la sua condotta politica non si è discostata molto rispetto a quella degli anni precedenti. Anche nella scelta dei suoi collaboratori ha finito per circondarsi di collaboratori, in particolare Hillary Clinton, che incarnano lo status quo anziché affidarsi ad esponenti di un “pensiero originale” come aveva annunciato prima dell'ingresso alla Casa Bianca. Non è un caso se lo scorso anno, l'analista americano Doug Bandow era arrivato a definirlo “un Bush addomesticato”.

Obama e il suo entourage, al pari dell'amministrazione Bush, non sembrano avere la più pallida idea di come approcciare la realtà del Grande Medio Oriente. Ancora oggi il Dipartimento di Stato fatica a distinguere tra sunniti e sciiti (ancora adesso l'Iraq è ancora fonte di mal di testa in proposito), figuriamoci cosa siano riusciti a capire delle tribù di Libia e Yemen, della crisi d'identità algerina, del problema demografico egiziano, delle reali intenzioni dei Fratelli Musulmani e più in generale delle tante, troppe ragioni alla base delle rivolte nella regione.

Così Obama non ha potuto far altro che affidarsi alla realpolitik, autorizzando l'intervento in Libia ma chiudendo gli occhi sull'invasione saudita in Bahrein, seguendo da vicino la traballante Siria ma ignorando poco più in là le manifestazioni in Giordania.

Eppure, proprio l'ossessione per il formalismo giuridico minaccia di mettere a rischio la posizione di Obama. Fedele alla sua idea di dialogo, il presidente si è prodigato per ottenere una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che, ai sensi del diritto internazionale, legittimasse il lancio di missili su Tripoli. Ma la Carta delle Nazioni Unite non è un surrogato della Costituzione degli Stati Uniti, che conferisce al Congresso, e non al presidente, il potere di "dichiarare guerra". Per cui l'intervento Usa sarebbe conforme sul piano internazionale ma illegittimo su quello interno.

Qualcuno ha citato il precedente della guerra del Vietnam, quando il Congresso approvò la War Powers Resolution che concedeva al presidente il potere di agire unilateralmente per 60 giorni in risposta ad una "emergenza nazionale creata da un attacco contro gli Stati Uniti, i suoi territori o possedimenti, o le sue forze armate".

Ma tale disposizione ha poco a che vedere con l'intervento in Libia, dal momento che Gheddafi non ha attaccato gli Usa né le loro forze armate. Nel suo ultimo discorso al Congresso, Obama non ha menzionato questo punto fondamentale. Senza un attacco armato, il presidente non può scavalcare il Congresso in una decisione così importante come l'entrata in guerra. Ciò è particolarmente evidente nel caso libico poiché, tra le indecisioni della coalizione e le lungaggini della prassi, il presidente aveva tutto il tempo per ottenere il sostegno del Congresso. Un errore grossolano, con l'aggravante di provenire da un avvocato, già professore di diritto costituzionale, con una laurea in scienze politiche alla Columbia e una in giurisprudenza ad Harvard.

E c'è già chi parla di impeachment.

Se oggi si parla di declino degli Usa e di mondo post-americano, ciò è soprattutto in conseguenza delle politiche imperialiste propugnate dalla Casa Bianca nel ventennio inaugurato dalla caduta del Muro di Berlino. E archiviato dalla crisi finanziaria che si è aperta generata nella culla di Wall Street.
L'ascesa di nuove potenze e la progressiva redistribuzione della potenza dall'Occidente all'Oriente, frutto del fenomeno tutto made in Usa della globalizzazione, stanno riportando il gigante americano all'interno di un sistema interstatuale di pesi e contrappesi. Ma la globalizzazione, tanto incentivata dall'America, da un lato ha favorito l'emergere di nuovi attori, più conflittuali e pericolosi degli Stati sovrani, e dall'altro ha contribuito ad esasperare le singole tensioni locali, proiettandoli su scala globale.
In un mondo globale è sostanzialmente impossibile stare al passo dei veloci e sostanziali cambiamenti nelle realtà locali. I nuovi mezzi di comunicazione, prodotto e simbolo del fenomeno in questione, ne sono l'esempio più lampante. Non saranno certo stati la causa delle rivolte in Maghreb, come certa stampa ha voluto far credere, ma hanno consentito la diffusione e l'aggregazione del malcontento popolare, soprattutto negli strati popolari più giovani, portando all'implosione e statualità più deboli. In un primo tempo, la concomitanza delle rivolte aveva convinto gli indolenti vertici di Washington, sempre alla ricerca di risposte semplici e possibilmente avulse da approfondimenti, della sostanziale omogeneità delle stesse.

Dagli albori delle rivolte arabe, i commenti sinora più significativi del Dipartimento di Stato si sono limitati all'augurio per una transizione democratica dei Paesi sconvolti dai sommovimenti. Anche qui, limitandosi ad affermare il primato legalistico, senza cogliere gli intoppi e le contraddizioni che questi mutamenti stanno incontrando. Legalità non sempre si traduce in eguaglianza, condizione fondamentale di una democrazia autentica e non solo di facciata. E l'illusione della legalità, ancora una volta, rischia di annebbiare il già miope sguardo dell'America. E, di riflesso, dell'Occidente.

Con il rischio che, aldilà dei buoni propositi, in Medio Oriente si arrivi al gattopardesco risultato di aver cambiato tutto per non cambiare nulla.1

Si tratta della frontiera artificiale tra l'Afghanistan e l'allora India Britannica (oggi Pakistan), la cui definizione nel 188 fu affidata a Sir Mortimer Durand, segretario degli affari esteri di Londra, che insieme all'emiro afghano Abdur Rahman Khan negoziò i confini tra il Raj, di cui il Pakistan faceva parte, e l'Afghanistan. Ciò senza tenere conto che la linea correva proprio a cavallo dell'areale delle tribù Pashtun, separandole in due Stati.

Nel 1949 la Loya jirga (assemblea delle tribù) afghana dichiarò di non riconoscere la validità della Linea Durand in quanto nel 1947, con l'indipendenza del Pakistan, il Raj, vista come la controparte nella stipula dell'accordo di confine, aveva cessato di esistere. Nell'immediato, questa presa di posizione non provocò effetti tangibili e il confine è sempre rimasto effettivo ed è riconosciuto dalla maggior parte degli Stati. Ma nel corso degli anni il confine è sempre stato fonte di tensioni tra i governi di Kabul e Islamabad, problematiche esacerbate dalla cosiddetta global war on terror statunitense che ha reso la frontiera ancora più instabile. Rendendo evidente la sua estrema permeabilità, che viene costantemente sfruttata sia dai gruppi ribelli e fondamentalisti della controffensiva afghana, sia dalla cosiddetta Mafia dell'Oppio pashtun.

Una situazione che Sir Durand e la corte di Londra, allora, non avrebbero mai immaginato.

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