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Jenin, l’ultima strage

Sameeh Abu al-Wafa, Hussam Abu Theeba, Aws al-Hanoun, Nour el-Din Marshoud colpiti in testa e al cuore. Poi altre tre vittime nella città martire di Jenin e un ottavo palestinese, Mohamed Hasanein, freddato stanotte nella periferia di Ramallah. E’ il risultato dell’ultimo raid omicida di Israele, che ha bombardato dal cielo e colpito da terra, con la potenza militare di cui dispone grazie all’amico americano e che usa in modo criminale anche quando da Oltreoceano dicono di contenere la violenza. 

Ma Netanyahu se ne infischia. Il suo ennesimo governo dai voti risicati ma radicati fra una popolazione che si specchia nella propria intolleranza e si mette nella mani fanatiche del sionismo religioso fatto partito, prosegue alla cieca, tanto il diritto di uccidere e sopraffare è garantito dal comune sentire. Abbraccia tutti, anche chi siede nell’altra parte della Knesset, i pochissimi laburisti rimasti e il fanatismo di solo vent’anni addietro, quello di Israel Beiteinu, oggi ampiamente spiazzato dai Ben Gvir e dalle Strook che puntellano il primo ministro ‘eterno’. Così per la strage di ieri cui s’accompagnano decine di feriti, il Parlamento si stringe attorno al governo giustificandolo con l’alibi della “difesa” nazionale. Altro che contestazione del premier usurpatore che le proteste delle settimane di primavera avrebbero mostrato. Quando si tratta di “difendere” Israele, i suoi assalti di guerra, gli omicidi mirati e ampliati, le vendette trasversali contro presunti terroristi (cittadini palestinesi), la maggioranza nazionale è coesa. E non è la maggioranza esigua con cui una coalizione più estremista e fanatica batte un’altra che le somiglia, è la somma di due parti d’una società unica e affine. Nella faziosità, nell’intolleranza, nell’odio, nella violenza, nella volontà d’imporre la sua visione delle cose, il proprio potere al resto del mondo. Anche alla maggioranza delle nazioni dell’Onu che, dopo aver difeso la nascita dello Stato d’Israele, gli suggerisce - inascoltata e umiliata - la coesistenza con chi viveva in quella terre prima delle riconquiste del 1948, del 1967 e delle decine di mini guerre imposte a una popolazione occupata e privata di autodeterminazione. Tutto troppo conosciuto, tutto troppo uguale da decenni, tanto da essere considerato una normalità. Così la punizione collettiva che i militari d’Israele, dei reparti speciali e di quelli di leva, riservano periodicamente agli abitanti caparbiamente abbarbicati all’angolo di terra che la Storia gli assegna da secoli, si ripete con cento e cento episodi. Simili nello spargimento di sangue e terrore.

Quando i massacri non raggiungono le centinaia e migliaia di vittime, come nelle operazioni contro Gaza dell’ultimo quindicennio, sono lo stillicidio di vicende di cronaca come racconta chi ieri a Jenin era nella propria casa crivellata da una gragnuola di colpi come si trattasse d’una trincea. “Un proiettile è entrato dalla porta principale e ha colpito mio nipote mentre era in bagno” raccontava una donna ai sanitari dove il ragazzo è giunto, fortunatamente solo ferito a un arto. L’ennesimo sfregio che Israele infligge ai palestinesi del campo di Jenin colpisce i singoli e la comunità privata di acqua, elettricità, telecomunicazioni. Impedire l’altrui esistenza, introducendo una precarietà a rischio della vita è il perfido “regalo” riservato da uomini, donne e politici d’Israele agli odiati palestinesi. Naturalmente i gruppi armati del campo rispondono come possono, con armi leggere, qualche razzo, come sempre l’impatto delle armi è impari. Le Brigate Jenin, la Jihad palestinese s’impegnano a testimoniare una resistenza più che a imporre qualsiasi difesa. Si combatte per qualche ora per non vedersi azzerare la dignità. Per dire: siamo un popolo, non ci avrete mai. 

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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