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Italia, dove una politica industriale non esiste

Altro che luce in fondo al tunnel. I dati Cerved sulle imprese italiane parlano del 2012 come l'anno peggiore dall'inizio della crisi: lo scorso anno, infatti, hanno chiuso i battenti 104mila aziende italiane, messe al tappeto da fallimenti (12mila), liquidazioni (90mila) e procedure non fallimentari (2mila) con un boom dei concordati preventivi.

Dal 2009 sono fallite più di 45mila imprese, quasi la metà nel settore terziario, ma secondo il Cerved è stata l'industria a subire l'impatto maggiore della recessione: il totale delle aziende manifatturiere insolventi tra 2009 e 2012 ammonta al 5,2% di quelle che avevano depositato un bilancio valido all'inizio del periodo considerato, contro il 4,6% nelle costruzioni e al 2,2% nel terziario. La crisi piccola e media impresa, spina dorsale dell'apparato produttivo nazionale e un tempo orgoglio tricolore nel mondo, non accenna affatto a placarsi.

La grande industria, invece, è sempre più nel mirino della magistratura. Ciò che unisce IlvaMonte PaschiSaipem e Finmeccanica è l'essere tutte società strategiche per lo sviluppo lasciate nello stallo fino a quando i giudici non sono costretti a intervenire. E se le poche grandi aziende italiane devono il loro destino alla sola azione giudiziaria vuol dire che qualcosa non va.

Il caso Finmeccanica è solo l'ultimo in ordine di tempo. L'amministratore delegato Giuseppe Orsi ha sempre contato su una fitta rete di appoggi in tutti i momenti chiave della sua carriera: prima per arrivare alla presidenza poi per difenderla della inchieste giudiziarie. Ma non è tutto. Orsi è stato non solo l'ultimo manager pubblico nominato dal governo Berlusconi (il 4 maggio 2011), ma anche il primo che ha avuto una nomina dal governo Monti. Il primo dicembre 2011 infatti l'ex numero uno dell'Agusta è stato nominato anche presidente della capogruppo Finmeccanica, in seguito alle dimissioni di Guarguaglini. Possibile che i tecnici non avessero un piano B o una lista di nomi credibili per garantire l’interesse nazionale, rappresentato dalla corretta gestione di una delle nostre aziende di punta? In altre parole, possibile che i tecnici non potessero agire diversamente dai tanto vituperati politicanti che li hanno preceduti (e che li seguiranno)?

Una volta c'era la grande impresa pubblica simboleggiata dall'IRI, motore trainante della ripresa italiana dopo il crollo del '29. E nell'immediato dopoguerra furono aziende come l'ENI di Enrico Mattei e la Finsider di Oscar Sinigaglia a contribuire al miracolo economico del Paese. Cosa è andato storto da allora?

A partire dagli anni Sessanta, le grandi aziende pubbliche sono diventate sempre più ostaggio di scelte politiche o "sociali". Scelte - come l'industrializzazione del Meridione o il contenimento del tasso di disoccupazione - politicamente giustificabili, ma economicamente insostenibili. In altre parole, in quegli anni la grande industria serviva a fornire lavoro alla gente e poltrone ai partiti, poco importava se ciò avvenisse in perdita. L'incapacità di comprendere per tempo il rapido mutamento degli scenari internazionali avrebbe poi portato al crollo negli anni Settanta (in conseguenza dello choc petrolifero) e poi ancora negli anni Ottanta, quando le perdite dell'industria di Stato furono ripianate dalla spesa pubblica in deficit. L'industria petrolchimica, in crisi dopo lo choc del '73, fu sovvenzionata per decine di migliaia di miliardi di vecchie lire. Stesso discorso per la Finsider (1.700 miliardi di perdite ogni anno) e per per colossi come Sir e Liquichimica, falliti a pochi anni dalla creazione. E come non ricordare i contribui a fondo perduto all'industria privata per eccellenza, ossia la FIAT, di fronte alla minaccia dei licenziamenti di massa? Ma andava bene così: scopo del settore secondario non era il profitto, bensì creare occupazione e consenso.

L'era della grande industria pubblica finì negli anni Novanta, quando la politica di privatizzazioni incoraggiata dall'Europa (il Britannia vi dice qualcosa?) portò alla dismissione - e alla perdita - di molti dei settori più tecnologicamente avanzati che l'Italia potesse vantare: dalla chimica all'informatica, dall'elettronica di consumo al nucleare. Danno a cui si aggiunse la beffa, se pensiamo che il salvataggio fallito dell'industria pubblica e le generose sovvenzioni a quella privata hanno contribuito non poco all'esplosione del nostro debito pubblico.

E con l'industria pubblica, in Italia è finita di fatto anche la politica industriale. Semplicemente perché i governi della Seconda Repubblica hanno rinunciato all'incombenza di elaborarne una.

Linkiesta esamina causa ed effetti di questa attuale condizione:

gli scandali, nella macabra contabilità pre elettorale in perfetta par condicio giudiziaria (Mps in quota Pd, Eni in quota Pdl e Finmeccanica in quota Lega), dovrebbero anche suggerire una riflessione che coinvolge quel che resta della grande impresa italiana. Ai casi finiti nel tritacarne mediatico potremmo infatti aggiungere i guai della nuova vecchia Alitalia privatizzata, la Telecom oberata dai debiti e a controllo semi spagnolo, passando per la Fiat sempre meno europea, coi suoi stabilimenti italiani semivuoti e in cassa integrazione; ognuno con i suoi specifici problemi di governance, di scandali, di investimenti, di strategia industriale, di management, di liquidità e di quote di mercato.
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In Italia usciamo da un ventennio in cui il “piccolo è bello” è stato culturalmente e mediaticamente egemone
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Una vulgata talmente sedimentata che, ancora nel 2009, un ministro potente come Giulio Tremonti che di quella stagione fu ideologo e suggeritore, poteva magnificare ai convegni di Fondazione Edison la tenuta del sistema Italia: «abbiamo 100 distretti e 8 milioni di partite Iva che non cambierei con i 50 campioni industriali francesi...»
L’ideologia dello “sviluppo locale” è stata in fondo reattiva alla stagione precedente del Primo e Secondo Capitalismo (quello privato delle grandi famiglie e quello pubblico del sistema Iri) addensato sul triangolo industriale Milano-Torino-Genova, teatro e cassa di risonanza del miracolo economico italiano.
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In verità negli anni Novanta ci fu una finestra per irrobustire il sistema industriale uscito negli anni precedenti da settori strategici come l’informatica, la chimica, la farmaceutica e l’elettronica di consumo: tra il 1992 e il 2007 l’Italia, con 137,9 miliardi incamerati e 139 società che passano di mano, è il paese europeo che dismette più patrimonio pubblico. Ma quell’occasione l’abbiamo sprecata. Dalle spoglie dello stato imprenditore esce fuori una sorta di neo monopolio privato, costruito su scatole societarie più orientate al controllo che alla crescita e allo sviluppo internazionale.
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Ammainata la bandiera del grande capitalismo, la globalizzazione e poi l’ultima crisi mondiale s’incaricano di completare il lavoro. Il capitalismo dei Piccoli, il sistema di subfornitura di beni tradizionali a minor valore aggiunto abituato a competere in un mondo chiuso, protetto dalla svalutazione della lira che riallineava i salari con i guadagni di produttività quando i primi divergevano dai secondi, mostra inevitabilmente la corda.
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In breve, l’Italia industriale alla vigilia del voto si trova davanti ad un doppio ostacolo. Nel suo versante “popolano” e di territorio annaspa, in molti casi continua ad essere scarsamente patrimonializzato, ha poca dimestichezza con la rivoluzione tecnologica, è troppo minuto e ripiegato su un mercato domestico dai consumi in caduta. Nel suo versante “borghese” e di grande industria si è invece troppo diradato, in alcuni casi travolto da scandali giudiziari, in altri deciso ad emigrare o addirittura a scomparire. Di questo secondo versante se ne parla troppo poco. Sbagliando.
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Nel frattempo in Italia sono planati gli stranieri, facendosi beffe di teorie e sofismi che tanto piacciono ai nostri intellettuali: Parmalat, Bulgari, Edison, Avio, ceramiche Marazzi, Cariparma, Bnl e tanti altri gioielli sono passati di mano. Tra poco seguirà Ansaldo Sts. Poi ci sono le mire cinesi sul lusso e la tecnologia tricolore, le ambizioni tedesche sui trasporti e le multinazionali che se ne vanno dal Belpaese. Senza muscoli e senza politica industriale per giocare le guerre di mercato, la nostra industria è vulnerabile allo shopping straniero. Allo stesso tempo sta implodendo il modello di industrializzazione forzata applicato al nostro meridione, grande impresa più indotto dedicato (e artificiale).

E la politica non sembra avere le competenze - né tanto meno la voglia - per invertire questa tendenza.

Un esempio? La vicenda Fincantieri. L’azienda navalmeccanica di Stato versa in crisi a causa dei suoi problemi di sovradimensionamento. Chi invece compete a livello internazionale - al di là degli scandali recenti - è Saipem. L'azionista di controllo di entrambe è il medesimo (per la prima attraverso Eni, per la seconda mediante Fintecna), cioè il Ministero dell’Economia. Eppure le due aziende sembrano aver interrotto i rapporti, dopo che a fine 2010 i lavori sulla piattaforma Scarabeo 8 furono spostati, in corso d’opera, dalla Fincantieri di Palermo ai norvegesi di Westcon.

Sarebbe interessante capire perché il governo non sia riuscito a coordinare le attività di due aziende, peraltro entrambe statali e in grado di competere a livello mondiale, in modo da massimizzarne il potenziale rapporto di cliente-fornitore. E da risollevare l'azienda navalmeccanica dalla crisi profonda in cui è precipitata.

Ancora. Nella campagna elettorale in corso si parla di tasse (troppe) e di posti di lavoro (pochi). L'idea di fondo è che, se le prime calassero, i secondi salirebbero. Invece i numeri dimostrano che i problemi sono ben altri.

Il “Pocket World In Figures 2013” dell’Economist è un volumetto di 250 paginette di classifiche che mettono a confronto i diversi Paesi del mondo nei settori più disparati: l’economia, la finanza, il turismo, l’industria, le tecnologie, la demografia. Tutti campi in cui l'Italia fa molto peggio degli altri.

Prendiamone uno: l'innovazione. Tanti dicono che il sistema imprenditoriale non investe in innovazione. La ragione è culturale, secondo alcuni. Anche qui, la realtà dice tutt'altro: nel pubblico, c’è una resistenza invincibile, mentre per le start-up mancano preparazione adeguata (colpa delle università) e contratti flessibili.

Simone Cabasino su Noise from Amerika spiega quali siano i fattori che ostacolano l'innovazione in Italia, giungendo a queste conclusioni:

Certamente esistono contro-esempi di innovazione di successo in Italia, nonostante i fattori a cui ho accennato, ma spero che alcuni concetti chiave siano condivisibili:

  • l’innovazione è rischio e bassa probabilità di successo, ma alti profitti (in caso di successo!) e questi non sono tipicamente obiettivi di buon management pubblico
  • le grandi imprese pubbliche hanno giuste logiche che impediscono questo tipo di rischio
  • le PMI (che vogliono avere elevate probabilità di sopravvivere) hanno solo una piccola frazione di risorse da rischiare per l’innovazione
  • il finanziamento pubblico per l’innovazione andrebbe eliminato e le risorse liberate restituite alle imprese come minor tassazione (quale miglior incentivo per un imprenditore e per i lavoratori avere salari netti più alti in caso di successo?)
  • le università, spesso realizzate per motivi campanilistici, senza meccanismi punitivi, non hanno seri meccanismi per promuovere l'eccellenza e quindi producono masse di giovani meno che mediocri
  • le rigidità contrattuali non sono un ausilio all’innovazione tecnologica

 

Può essere che il Paese scelga di continuare a vivere con grandi imprese pubbliche e PMI molto tassate, ma incentivate con finanziamenti pubblici. Può essere che si voglia mantenere il valore legale del titolo di studio e a finanziare università e facoltà di scarso valore senza seri meccanismi di competizione. Può essere che si mantenga il divieto di attivare contratti di collaborazione o contratti a progetto. Nessun problema: saremo un paese di pizzerie e ristoranti sul mare. Affrettatevi però a cercare la concessione per un pezzo di spiaggia.

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