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Italia, da fondatore ad affondatore dell’Europa

1. Non vale la pena esagerare la portata dello scambio di sorrisi tra Merkel e Sarkozy: di per sé, non è che una trascurabile parentesi a margine di un importante vertice europeo; l'antiberlusconismo ne ha fatto il caso del giorno.

Il ghigno gallo-teutonico rimane comunque una caduta di stile, prima ancora che la “prova” di quanto la nostra immagine all'estero sia sprofondata in basso. Ben più rilevante, e che il dileggio ha declassato in secondo piano, è la ragione di fondo del vertice in questione, ossia la crisi dell'eurozona (leggi: del nostro debito sovrano).

Il gioco di parole in testa al presente contributo è opera del prof. Mario Monti, che in un recente editoriale sul Corriere ha detto ad alta voce quello che prima si diceva a mezza bocca: "l'Italia può affondare l'euro. Perché siamo noi, e non la Grecia, a tenere i mercati in fibrillazione". 

Lo dimostrano i tassi di interesse sul debito: più alti per l’Italia che per la Spagna - e più alti che per la Polonia, benché questa, non facendo ancora parte dell’euro, presenti un esplicito rischio di cambio. Se (rectius: quando) salta Atene, la falla può essere riparata e il vascello euro può sperare di proseguire verso acque più tranquille; viceversa se saltiamo noi, la moneta unica cola a picco. E se salta l'euro, salta l'Europa;

se salta l'Europa, salta l'economia mondiale, tuttora convalescente a quattro anni da un'epidemia finanziaria mai spenta. Se per le banche si era coniata l'espressione “too big to fail”, viceversa l'Italia possiamo definirla “too big to save”: troppo grande per essere salvata. Ed è proprio Bruxelles a ricordarcelo, ente supremo a cui Roma ha da tempo delegato la paternità delle politiche più impopolari.

Diviso più che mai, prostrato da una crisi dalla quale non riesce a rialzarsi, soffocato da caste che sacrificano il merito sull'altare del corporativismo, guidato da un (mal)governo che non si regge sulle proprie gambe, il Belpaese si vede così investito di una responsabilità globale nel momento in cui meno appare in grado di assumere le decisioni più opportune, più urgenti e (per questo) più sofferte.

Da noi tutti sono disposti a scontentare tutti in nome del bene comune, a parole; nei fatti ciascun parruccone di Montecitorio ha questa o quella cara corporazione a cui dover dire “grazie” o “obbedisco”.

Mina vagante in un mare in tempesta e seconda I dell'acronimo PIIGS, l'Italia appesa al cappio di una maggioranza politica agonizzante e sotto il tiro della speculazione geofinanziaria si trova per la prima volta a fare i conti con quelle scelte che ne ridefiniranno la fisionomia sia interna che esterna.

Ma l'alternativa preferibile in astratto, e che dall'alto ci viene suggerita (riforme strutturali in tempi rapidi), fa a botte con la concretezza di una classe politica e di una costellazione più o meno ampia di lobby (avvocati, medici, farmacisti, evasori), ostinatamente attaccate al proprio corredo di privilegi feudali.

Senza contare la fitta rete di relazioni clientelari sulla quale la politica fonda la propria (il)legittimità. Nel quadro caotico di una bufera speculativa, la necessità di riformare lo status quo (leggi: di assumere misure impopolari) rappresenta il peggiore scenario possibile per un esecutivo come il nostro, privo di idee e contenuti, tenuto in piedi da un movimento separatista e da un gruppo di responsabili, sbeffeggiato in ogni dove e sempre più indebolito da un'inarrestabile emorragia di consensi.

2. Nel contesto del patto per l'euro, la presa di coscienza dell'italica incapacità di tutelare il nostro bilancio pubblico ha spinto Francoforte a imporre il proprio diktat nei termini di una manovra deflattiva che probabilmente Roma, in crisi per l'incalzante sismicità dei mercati finanziari e per la cronica paralisi politica, non riuscirà neppure a mettere nero su bianco.

A riprova di questa visione c'è la crisi che, senza apparente necessità, Berlusconi e Tremonti hanno fatto scoppiare in piena estate: il primo accusava l'altro di eccessivo rigore, il secondo si giustificava legando la stabilità finanziaria del Paese alla propria sopravvivenza politica. Un teatrino costato molti punti di spread al nostro debito, ergo molti soldi agli italiani, ma anche a tutti gli europei, inclusi i tedeschi.

Per salvare il salvabile, Tremonti sperava di poter negoziare il ritmo di rientro dal debito, dettandone i tempi per adeguarli al passo di lumaca della nostra economica – e alle scadenze elettorali del governo. In altre parole, l'uomo che dice sempre “o così o niente” auspicava di contrattare la quantità, la misura della sovranità da cedere a Bruxelles per restare nel club della moneta unica.

Nel frattempo, tra un taglio lineare e l'altro, aveva tentato di mettere le mani avanti lanciando la proposta dei cosiddetti eurobond, tanto celebrati dall'intellighenzia di Palazzo Chigi quanto sgraditi alla signora Pantalone Merkel (che secondo stime tedesche costerebbero 40 miliardi in più in termini di interessi sul debito).

Aveva anche cercato di preservare i gioielli di famiglia, pardon le nostre imprese strategiche, da scalate ostili di estera provenienza: sia direttamente, tramite una legge ad hoc, sia indirettamente, intervenendo (attraverso un Fondo d'investimento della Cassa Depositi e e Prestiti e d'intesa con la Banca d'Italia) a stabilizzare il capitale di tali imprese. Misure tampone, ovviamente, non sufficienti ad arginare le emorragie strutturali di un sistema economico in sofferenza.

Odore di sangue che, puntualmente, arriva al naso dei pescecani, i quali da luglio si sono lanciati in un feroce attacco speculativo alla preda Italia, nel frattempo tramortita dai colpi delle agenzie di rating.

3. I capofila tedeschi sono sempre più irritati da questa Italia pasticciona e inaffidabile. Il risolino di frau Merkel camuffa il fastidio per la nostra irresponsabilità. Tuttavia, potrebbe minacciare di sbatterci fuori dall'euro ma non lo fa. Neppure sapendo che l'opinione interna sarebbe compatta in questa scelta. L'uscita dalla moneta unica è stata prospettata più volte per la Grecia, ma mai per l'Italia.

Il ritorno alla lira e alle banconote con molti zeri è più facile a dirsi che a farsi. Con una moneta libera di fluttuare e una politica monetaria slegata dai lacci e lacciuoli di Francoforte, le merci del Belpaese metterebbero fuori gioco il made in Germany sui mercati internazionali con gravi conseguenze sul piano occupazionale e sociale per Berlino, al di là degli ingenti costi che la stessa Italia si troverebbe ad affrontare (e che renderebbero comunque l'uscita dall'euro un'operazione problematica).

Avendo saldamente in pugno una fetta della nostra sovranità nazionale, Merkel e Sarkozy trovano più conveniente spostare la partita su un altro piano. Consci che l'Italia non riuscirà mai a mettere in cantiere quelle riforme da loro richieste sia direttamente che per interposta persona (tramite missive a firma della Bce), sanno già che Roma si troverà necessariamente a ripiegare su un piano B.

Che nel caso di specie prevede la svendita dell'argenteria (cioè i nostri asset nazionali) a prezzi di saldo. Perché il punto è questo: per salvare la capra (l'Italia) e i cavoli (i privilegi feudali) al Governo non resterà che impegnare anche i gioielli di famiglia.

Intrappolati tra l'incudine di Bruxelles e il martello della triade del rating, ad annerire le prospettive del nostro Paese c'è la paradossale convergenza di interessi tra gli attori in questione. Da un lato l'Europa, la cui sopravvivenza è legata a doppio filo alla stabilità del nostro Paese, e che incrocia le dita affinché questo riesca miracolosamente a salvarsi da solo perché non potrà essere salvato da nessun altro; dall'altro i famelici pescecani della speculazione, che confidano in un futuro banchetto di privatizzazioni per impadronirsi dei ghiotti asset (Eni, Enel, Finmeccanica, Telecom) di cui ancora disponiamo – oltre alle 2545 tonnellate d'oro nei caveau di Roma, Ginevra e New York.

4. Gli italiani, indignati o meno che siano, finché avranno tre pasti al giorno garantiti non faranno mai la Rivoluzione. Per anni abbiamo tollerato che la macchina sociale viaggiasse a due velocità: essere bloccati nel traffico è più tollerabile se ogni tanto si fa un passo, benché in un'altra corsia ci siano bolidi sfreccianti in barba ai semafori rossi. C'è stato bisogno che il mondo ci franasse addosso per revocare ogni diritto di cittadinanza a questa disparità.

Peccato che il palazzo non abbia i numeri, la capacità, la credibilità o più semplicemente la voglia per riequilibrare questa disuguaglianza. Il susseguirsi ciclico di manovre tampone basate quasi esclusivamente su nuove entrate fiscali non potrà che aggravare una situazione già drammatica, producendo una seria contrazione produttiva e occupazionale, con ulteriore necessità di nuove misure.

Per lungo tempo i soloni dei piani alti si sono potuti permettere il lusso di chiudere entrambi gli occhi sul circolo vizioso in atto, ridestati solo ora davanti alla prospettiva di dover fronteggiare i forconi fuori dal palazzo. Scrive il prof. Monti che se c'è un problema Berlusconi, è comunque un problema di noi italiani che l'abbiamo democraticamente eletto tre volte, o almeno è ciò che ci siamo ripetuti per anni.

Ora che la realtà internazionale rischia di travolgerci (e noi di travolgere questa di rimando) questo problema si è dilatato al punto da rimetterci di nuovo al centro del mondo. Non accadeva dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, dopo la quale fummo relegati a potenza di terza categoria.

Se il Cavaliere intendeva riportare il nostro Paese al centro dell'attenzione, c'è (purtroppo) riuscito in pieno. Col rischio che sia proprio il nostro Paese, fondatore dell'Unione Europea, ad affondare la barca dei 27. Come un moderno Titanic (metafora già impiegata da Tremonti) in cui l'orchestra suonò fino all'ultimo, al ritmo di bunga bunga.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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