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Israele e Palestina: le origini del conflitto

Sulle drammatiche vicende mediorientali sono state scritte molte cose.

Che sono più o meno le stesse che si ripetono ad ogni singola, ciclica tornata di conflitto in cui immediatamente i sostenitori degli uni e degli altri si scatenano nella più querula delle risse mediatiche.

Non mi ci sono tirato indietro nemmeno io, lo confesso, anche se finora, in occasione di quest'ultima crisi, ho evidenziato solo aspetti marginali o collaterali rispetto al conflitto in sé. Senza perdere di vista le possibili conseguenze dell’importazione di quel conflitto in Europa (e su questo punto sarà opportuno tornare a ragionare).

Sul conflitto torna oggi a riflettere anche Michele Di Salvo noto commentatore-blogger dell’Unità, a cui rubo anche il titolo dell'articolo (non che sia particolarmente fantasioso, ma la dichiarazione è d'uopo), con cui spesso mi sono sentito in sintonia.

Ma questa volta meno, perché lo fa con un pezzo dai colori disarmonici, vagamente stonati.

Ripropone, è vero, gli aspetti “territoriali” del conflitto. Quelli che hanno dato origine al cataclisma attuale: la terra, l’acqua, le risorse, Gerusalemme, i profughi, le colonie. Tutti temi che sono lì da sessant’anni e che sono stati affrontati e sviscerati non si sa quante volte, per arenarsi sempre, ogni volta, su rigidità che i sostenitori di una parte addebitano all’altra e viceversa.

Poi però anche lui cede alla tentazione di spiegare in qualche modo l’insofferenza arabo-ebraica risalendo indietro nel tempo, nei millenni, fino alla Bibbia, e alla separazione (drammatica, ma non poi così tanto) tra i due figli di Abramo, Isacco, progenitore di tutti gli ebrei, e Ismaele, progenitore degli arabi.

Lo fa sorvolando con leggerezza sul tema, senza affondare il bisturi, ma commettendo anche qualche sfondone: Abramo morì, secondo lui, prima di giungere alla Terra Promessa (confondendosi con Mosè che con la storia di Isacco e Ismaele ovviamente non c’entra niente).

Questi voli pindarici sulle Sacre Scritture li lascerei volentieri alla gazzarra da bar sport dove immancabilmente si rinfaccia agli ebrei di sentirsi superiori perché “popolo eletto” (dando un’interpretazione sballata - in realtà cristiana - della “elezione” rispetto a quella che è nella tradizione ebraica, dove non c’è traccia di suprematismo). E così via.

Nella Bibbia i due figli di Abramo, nati da madri diverse, alla fine si ritrovano pacificamente davanti al letto di morte del padre (Genesi 25). Tutto il gran conflitto “biblico” tra ebrei e arabi, ricordato da tanti, non c’è affatto.

Sui punti di scontro territoriale invece il gran conflitto c’è, eccome. Di Salvo li elenca: “i nodi li conoscono tutti "gli addetti ai lavori" e sono sostanzialmente, ancora, i cinque punti discussi a Dayton: la divisione di Gerusalemme, la questione legata al rientro dei profughi, gli insediamenti dei coloni in terre ufficialmente destinate ai palestinesi, il riconoscimento di uno Stato Palestinese autonomo, e la questione meno trattata ma quella su cui si arena tutto, la divisione delle risorse idriche (95% a Israele, 5% alla Palestina)”.

Aggiungerei il riconoscimento reciproco che c’è stato tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese, ma non tra Israele e Hamas né tantomeno fra lo stato ebraico e le sigle minori e ancora più radicali di Hamas dello schieramento palestinese.

E’ opportuno ricordare che sui primi quattro punti le trattative ufficiose di Ginevra (che continuo a considerare l’unico momento serio di trattativa, benché non ufficiale, tra israeliani e palestinesi, mai fatta finora), hanno portato ad un accordo.

Gerusalemme dovrebbe essere divisa e il quartiere arabo diventare la capitale del futuro stato palestinese; solo ad un numero simbolico di profughi verrebbe riconosciuto il diritto di tornare nei luoghi abbandonati (o da cui furono cacciati) nel 1948; i maggiori insediamenti coloniali sarebbero integrati nel territorio israeliano e porzioni di territorio equivalenti, per estensione e caratteristiche morfologiche, sarebbero ceduti da Israele allo stato palestinese; ivi compreso un corridoio protetto che metterebbe in comunicazione Gaza con la West Bank.

Il riconoscimento a questo punto sarebbe automatico e i due stati potrebbero finalmente avere confini condivisi e ufficializzati (e quindi riconosciuti anche dalla comunità internazionale).

Cosa mai avvenuta prima perché, ricordiamolo, i tanto declamati "confini del '67" (violati dagli stati arabi nel '67 e poi nel '73) non sono mai stati un confine, ma solo la linea di armistizio della guerra del '48 (che a sua volta vide la violazione, da parte araba, della linea di spartizione prevista dall'Assemblea Generale dell'ONU).

Sull’ultimo punto, quello relativo alle risorse idriche, giustamente definito il più scabroso, credo che il miglior segno di una possibile intesa fra gli stati, e di conseguenza fra i popoli, derivi dalla firma nel dicembre dell'anno scorso, di un accordo decisamente di portata storica, fra Israele, Giordania e ANP. Un accordo che prevede la costruzione di un canale di collegamento fra il Mar Rosso e il Mar Morto, cioè di una infrastruttura decisiva sia per salvare il mare salato, chiuso e ormai asfittico sia “per garantire alla regione milioni di metri cubi di acqua dolce e energia idroelettrica”.

Portata dal mare aperto, attraverso 180 chilometri tutti in galleria, scavata in territorio giordano, da un impianto di desalinizzazione in Aqaba (sempre in Giordania) sino al Mar Morto. Che sta sotto al livello del mare e quindi non pone problemi di reflusso.

Acqua e desalinizzatori, ingegneria e volontà politica. E soldi, ovviamente. Acqua di cui anche la West Bank usufruirà, facendo venir meno finalmente, me lo auguro, quella disparità di trattamento tra coloni e palestinesi che hanno portato recentemente al boicottaggio dell’azienda israeliana di distribuzione idrica.

Ecco fatto. A questo punto non resta che definire i termini della pacificazione reale, sul terreno: con Hamas che depone le armi, smette di sparare razzi e progettare attentati terroristici sul territorio israeliano, smette di rapire soldati, collabora con la polizia israeliana in caso di violenze contro i civili ebrei, chiude i tunnel verso Israele (che sono una minaccia terrificante, anche più dei razzi, per la popolazione civile); Israele la finisce con le bombe, con gli omicidi mirati, con le punizioni collettive, con l'abbattimento delle case, con gli arresti indiscriminati, con il blocco navale, con la chiusura ad intermittenza dei valici e con i check point. La West Bank diventa un'are smilitarizzata e garantita dalla presenza di una forza di pace internazionale. L’Egitto apre definitivamente il valico di Rafah, concedendo all’economia di Gaza finalmente di respirare e di crescere per assicurare ai suoi abitanti condizioni di vita decenti, grazie anche agli enormi flussi di denaro che arrivano dai paesi amici. Con cui si possono costruire scuole, ospedali, una rete fognaria degna di questo nome, depuratori e desalinizzatori e fabbriche e agrumeti e coltivazioni e così via.

E fine della questione, finalmente. Con Isacco e Ismaele che si abbracciano sulla tomba del padre.

Che sta a Hebron, cioè in Palestina. Dove però c’è una consistente presenza di coloni ebrei. Che però reclamano di non essere una colonia, perché gli ebrei a Hebron c’erano da duemila anni, prima di essere aggrediti, massacrati e cacciati nel 1929 da arabi che si sono impossessati delle loro case e dei loro averi. E che quindi erano diventati loro dei coloni, sloggiati nel '67 dopo la guerra dei Sei Giorni. E che però, adesso, ritengono che i coloni siano gli ebrei, che se ne dovrebbero andare, ma quelli però dicono che...

A questo punto mi sono svegliato, con un vago senso di angoscia.

 

Foto: Nick Thompon/Flickr

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