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Iraq, un decennio terribile dopo l’invasione del 2003

 

Il 20 marzo 2003 i primi soldati statunitensi e britannici entravano in territorio iracheno, avviando quella che è conosciuta come la seconda guerra del Golfo (in realtà la terza, se si considera oltre a quella del 1991 anche la prima tra Iran e Iraq dal 1980 al 1988).

Il decennio iniziato quel 20 marzo è raccontato in un rapporto reso pubblico oggi da Amnesty International, che descrive l’Iraq del 2013 come un paese ancora intrappolato in un orribile ciclo di attacchi contro la popolazione civile, torture, processi farsa e condanne a morte.

La caduta di Saddam Hussein nel 2003 avrebbe dovuto essere seguita da un percorso di fondamentali riforme nel campo dei diritti umani. Era quello che speravano e meritavano gli iracheni, dopo decenni di guerra e repressione.

Per molti di loro, sicuramente, la fine del regime baathista ha significato maggiore libertà. Questo vale soprattutto per la popolazione della regione autonoma del Kurdistan, rimasta parzialmente estranea alla violenza e strettamente controllata dai due storici partiti curdo-iracheni, il Partito democratico e l’Unione patriottica.

Praticamente dal primo giorno dell’invasione, le forze di occupazione si sono rese responsabili di massacri, torture e altre gravi violazioni dei diritti umani ai danni dei prigionieri, come dimostrato dallo scandalo di Abu Ghraib (sopra, la foto-simbolo delle torture praticate nel carcere iracheno) che ha coinvolto le forze statunitensi e dal pestaggio a morte di Baha Mousa, un uomo che era sotto custodia britannica a Bassora.

Sia in Gran Bretagna che negli Usa, a parte inchieste su casi specifici e risarcimenti che non hanno chiamato in causa i governi, non si è indagato a fondo sulle massicce violazioni dei diritti umani commesse dalle forze dei due paesi e non ne sono state accertate sul piano penale le responsabilità ai piani alti di comando, anche se recenti sviluppi potrebbero portare sotto inchiesta l’ex capo della Cia, David Petreaus. Ai cittadini iracheni vittime di violazioni dei diritti umani non è stato possibile adire le corti statunitensi per chiamare in causa funzionari dell’amministrazione Usa.

Quel sistema di torture è poi proseguito da parte delle forze irachene, soprattutto nei confronti delle persone arrestate sulla base delle norme antiterrorismo.

metodi di tortura denunciati dai detenuti comprendono scariche elettriche sui genitali e su altre parti del corpo, il semi-soffocamento con la testa stretta in una busta di plastica, pestaggi durante sospensioni in posizioni contorte, diniego del cibo, dell’acqua e del sonno, minacce di stupro nei loro confronti o delle loro parenti. Il rapporto di Amnesty International cita anche diversi casi di donne che hanno denunciato di aver subito violenza sessuale in carcere.

Sottoposti a trattamenti del genere, i detenuti “confessano” gravi crimini o li attribuiscono ad altri. Talvolta, prima del processo, vengono esibiti in televisione dove rendono note le “confessioni”. Una volta portati in aula per il processo, molti ripudiano le dichiarazioni rese durante gli interrogatori. I giudici non se ne curano: le ammettono come elemento di colpevolezza, senza neanche indagare sulle denunce di tortura, e pronunciano condanne a lunghi anni di carcere se non alla pena di morte.

Le autorità irachene hanno di tanto in tanto ammesso l’esistenza di casi di torture e maltrattamenti ma hanno cercato di ridimensionarli come episodi isolati; in quelli di più alto profilo, hanno annunciato l’avvio di inchieste ufficiali i cui risultati, ammesso che quelle inchieste abbiano avuto luogo, non sono mai stati resi noti.

La pena di morte, sospesa dopo l’invasione del 2003, è stata reintrodotta dal primo governo iracheno non appena entrato in carica e le esecuzioni sono riprese nel 2005. Da allora, sono stati messi a morte almeno 447 prigionieri, tra cui Saddam Hussein, alcuni dei suoi più stretti collaboratori e presunti membri di gruppi armati.

Centinaia di prigionieri sono in attesa dell’esecuzione nei bracci della morte. Con129 prigionieri messi a morte nel 2012, l’Iraq è uno dei paesi in cui la pena di morte viene applicata con maggiore frequenza.

Sulla vita di milioni di iracheni pende poi la minaccia della violenza dei gruppi armati, resisi responsabili in questo decennio di azioni odiose, in particolare contro i civili sciiti, compresi gruppi di pellegrini.

Quella violenza ha prodotto un biennio orribile, tra il 2006 e il 2007, con migliaia e migliaia di morti e un esodo interno di proporzioni impressionanti, e non è ancora finita.

Ben altro avrebbero meritato le irachene e gli iracheni, dopo il 20 marzo 2003.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di pint74 (---.---.---.123) 11 marzo 2013 20:22
    pint74

    Non era abbastanza chiaro che la guerra del 2003 era stata scatenata da ben altre motivazioni che quelle umanitarie?
    Cosa pretendevate,pace gioia e democrazia?
    Stessa storia in Libia.Abbiamo distrutto il futuro,per quanto potesse essere non proprio roseo sotto la dittatura,di almeno 2 popoli.Senza contare la Siria e chissà quale altre nazioni...Tutto per il bene di pochi...Forse meglio dire per il profitto di pochi.

  • Di Sandro kensan (---.---.---.155) 11 marzo 2013 21:54
    Sandro kensan

    Articolo orripilante non in quanto tale per il suo contenuto veramente orrorifico. Comunque voi che avete indagato potete dare una conclusione semplice e cioè se si stava meglio con Saddam o con gli Americani in IRAQ?

  • Di (---.---.---.92) 11 marzo 2013 22:51

    Per i curdi e gli sciiti sicuramente si sta meglio. Discriminati sotto Saddam, hanno il potere nelle mani. I sunniti si sentono discriminati. La sconfitta del dopo Saddam è che non si è riusciti a ricostruire un paese in cui le diverse comunità etniche e religiose potessero convivere in pace. Le forze angloamericane non sono immuni da responsabilità. Certo, analizzando da un punto di vista storico, gli orrori commessi sotto Saddam Hussein (il 16 marzo sarà il 25mo anniversario dello sterminio con armi chimiche della popolazione curda di Halabja) non sono stati raggiunti. Ma è poco consolante.

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