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Interruzione di gravidanza: nuovi criteri per la diagnosi di aborto?

Diagnosticare l'interruzione spontanea di una gravidanza nelle primissime settimane non è sempre facile: per questo esistono criteri stringenti, sottoposti a continui "aggiustamenti"

GRAVIDANZA E DINTORNI – Una perdita di sangue, un dolore al ventre o magari le due cose insieme: all’inizio di una gravidanza, questi eventi fanno subito pensare alla possibilità di un aborto. La prima, spontanea e comprensibile reazione (è anche quello che i medici consigliano di fare) è andare dal proprio ginecologo o al pronto soccorso, dove un’ecografia dovrebbe chiarire la situazione. Se davvero la gravidanza si è interrotta, saranno possibili due strategie: o la condotta d’attesa, in cui si aspetta che l’embrione o i residui della gravidanza vengano eliminati da soli (al massimo con l’aiuto di farmaci che favoriscono la contrazione dell’utero), oppure un piccolo intervento chirurgico (raschiamento o revisione). Al momento, non c’è una risposta definitiva su quale sia l’approccio migliore in generale, perché entrambi potrebbero comportare qualche complicazione: si valuta caso per caso.

È chiaro però che, prima di qualsiasi intervento, bisogna essere assolutamente sicuri della diagnosi, altrimenti si corre il rischio (raro ma non impossibile) di interrompere una gravidanza che poteva tranquillamente proseguire. Proprio per questo a livello internazionale sono stati definiti criteri precisi per la diagnosi di aborto, rivisti più volte negli ultimi anni per ridurre al massimo il rischio di errore. Perché, come dice il ginecologo Tom Bourne, professore all’Imperial College di Londra, “Anche una singola diagnosi sbagliata è un errore di troppo”. Ora, un ampio studio condotto nel Regno Unito e coordinato proprio da Bourne conferma la bontà di quelle indicazioni generali, fornendo loro una solida base scientifica e proponendo qualche aggiustamento per alcuni casi particolari .

“Le settimane di gravidanza sono calcolate a partire dal primo giorno dell’ultima mestruazione, supponendo che il concepimento sia avvenuto due settimane dopo”, ricorda il ginecologo Giuseppe Rizzo, presidente della Società italiana di ecografia ostetrica e ginecologica (Sieog), che si occupa di redigere le linee guida italiane per la diagnosi di aborto. “Tra le cinque e le sei settimane di gravidanza compare la camera gestazionale, il ‘sacchetto’ che contiene l’embrione e che in ecografia appare come un’area nera. L’embrione, a sua volta, compare intorno alle sei settimane e solo quando raggiunge dimensioni adeguate se ne può visualizzare il battito cardiaco”. È ovvio che se l’ecografia viene fatta molto presto, quello che si vede (o non si vede) potrebbe non essere sufficiente per stabilire se sta andando tutto bene (e la gravidanza è “evolutiva”, come dicono i medici) o se invece, purtroppo, si è interrotta. “Può darsi che, sulla base delle settimane di gravidanza, mi aspetterei di vedere un embrione che invece non appare” chiarisce Rizzo. “Ma non c’è perché magari quella donna ha un ciclo più lungo del normale o c’è stato un concepimento tardivo, e dunque è ancora presto per vedere qualcosa, o non è presente perché la gravidanza si è già interrotta?”.

Secondo quanto riportano i criteri attuali (come riferimento* si possono prendere quelli del Nice, l’Istituto nazionale per la salute e l’eccellenza clinica del Regno Unito), la diagnosi di aborto si può porre con sicurezza se: 1) l’ecografia eseguita per via transvaginale mostra un sacco gestazionale con diametro maggiore o uguale di 25 millimetri, ma non c’è né embrione né sacco vitellino, oppure 2) c’è un embrione con CRL (una misura di lunghezza, dal vertice al sacro) maggiore o uguale a 7 millimetri, ma senza battito cardiaco. In questi casi non servono ulteriori controlli: purtroppo non c’è più nulla da fare (o da sperare), come hanno confermato le osservazioni eseguite da Bourne e colleghi in uno studio che ha coinvolto 2558 donne con gravidanza iniziale a evoluzione incerta, seguite fino alle 14 settimane. Non solo: secondo lo studio inglese se si conosce con sicurezza la data dell’ultima mestruazione e si sa che la gravidanza ha superato le 10 settimane, si può dichiarare che c’è stato un aborto anche con parametri leggermente inferiori (sacco gestazionale uguale o maggiore a 18 mm, senza embrione, oppure embrione senza battito, anche con CRL uguale a superiore a 3 mm).

A volte, però, una singola ecografia non basta. Ci sono situazioni incerte, che possono richiedere un secondo controllo, in genere previsto 7 giorni dopo, per valutare come evolve la situazione. A questo proposito, però, i clinici inglesi sottolineano che in alcuni casi – per esempio se non c’è embrione e il sacco gestazionale misura meno di 12 mm – una settimana potrebbe non essere sufficiente: meglio aspettare 14 giorni.

“Attenzione”, afferma Rizzo. “Tutti questi valori fanno riferimento a ecografie eseguite per via transvaginale. Non sempre, però, è possibile effettuare questo tipo di esame, che per esempio viene rifiutato da donne di particolari etnie: in questi casi, il medico dovrà essere ancora più cauto e prevedere eventualmente qualche controllo in più o a distanza maggiore”.

Certo, essere rimandate a un controllo dopo 7 o addirittura 14 giorni può essere psicologicamente molto pesante. Chi ha tanto desiderato un bambino, ha gioito alla vista del test positivo e ha cominciato a sognare il futuro a occhi aperti, potrebbe vivere quei giorni d’attesa come un ottovolante ingestibile di emozioni, sospesa tra speranza e disperazione. Per questo è molto importante la capacità del medico di spiegare esattamente come stanno le cose, fornendo indicazioni realistiche nel modo più empatico possibile. E proprio per questo sarebbe meglio evitare, in assenza di indicazioni mediche specifiche, di correre a fare un’ecografia appena si scopre di essere incinte. “Un conto è se ci sono dei segnali d’allarme, come perdite o dolori, o se la gravidanza arriva da una procedura di PMA, che richiede controlli più stringenti”, conclude Rizzo. “Ma se tutto è nella norma, meglio aspettare almeno 10 settimane, meglio ancora 11-14 settimane, come suggeriscono ormai le principali società scientifiche del settore. A questo punto, infatti, si possono avere più certezze e si possono già valutare vari aspetti dell’anatomia fetale. Fare un’ecografia troppo presto potrebbe significare esporsi ad ansie inutili”.

*In Italia, il riferimento sono le Linee guida della Società italiana di ecografia ostetrica e ginecologica, che sono state appena aggiornate: la nuova edizione (che si adegua ai parametri internazionali) è in via di pubblicazione.

Crediti immagine: coloredgrey/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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