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Inflazione | Alla ricerca del sacro paniere di stabilità monetaria

Nell'eterna ricerca del proiettile d'argento per impedire l'inflazione, torna l'idea di legare la politica monetaria al prezzo delle materie prime. Ma ciò aumenterebbe instabilità ed effetti prociclici

 

A intervalli regolari, qualcuno lancia mirabolanti ipotesi per “rendere stabili” le valute. Contro cosa, è il punto centrale del discorso. Certo, dopo una perturbazione inflazionistica non ancora terminata, la suggestione di impedire che le banche centrali si prendano troppe “licenze” resta molto alta. Almeno, da una parte della staccionata. Dall’altra, ci sono quelli che ritengono le banche centrali il maggiore ostacolo al raggiungimento della pienezza della democrazia, e tendono a far coincidere questo concetto con quello di deficit. Il vincolo di realtà viene serenamente messo da parte.

ORFANI DI BRETTON WOODS

E così, in questo periodo torna di moda suggerire di agganciare (anzi, “ancorare”) il cambio a qualcosa che sia “solido”, “tangibile” e rappresenti anche l’ideale pivot a cui legare l’andamento dei cambi mondiali. È da Ferragosto del 1971, quando Richard Nixon dichiarò la fine del regime valutario nato a Bretton Woods, che il mondo è alla periodica ricerca di questo centro di gravità valutaria permanente.

A dirla tutta, basterebbe essere dotati di memoria storica per mettersi il cuore in pace e parlare d’altro. Ma evidentemente queste amnesie selettive servono nel Gran Teatro del mondo. L’ultima versione dell’Eterno Ritorno del centro di gravità permanente valutario proviene dagli Stati Uniti, nelle more delle prime schermaglie per la campagna elettorale presidenziale del novembre 2024.

Proviene da Vivek Ramaswamy, giovane imprenditore biotech non scevro da controversie, che nel primo dibattito tra coloro che vorrebbero contendere a Donald Trump la nomination Repubblicana, si è messo in evidenza come piccolo replicante del tycoon, magari per poter essere designato come suo vice. A parte ciò, Ramaswamy da tempo propone di riformare la Federal Reserve per dare stabilità al dollaro. Come noto, i Repubblicani sono da sempre convinti che il biglietto verde sia diventato carta straccia e propongono di conseguenza i loro cosiddetti rimedi.

Quello di Ramaswamy chiede di stabilizzare il cambio del dollaro, e di conseguenza la congiuntura, prendendo come riferimento non l’indice dei prezzi al consumo ma un paniere di materie prime. Questa posizione discende dal rigetto da parte di Ramaswamy del doppio mandato della Fed, quello che punta ad assicurare il pieno impiego compatibilmente con la stabilità dei prezzi, conseguita con un’inflazione intorno al 2%. Perché la curva di Phillips è morta, si tende a sostenere in questo periodo. In attesa di smentita.

Questo punto credo tenderà a ricorrere nel dibattito teorico su quello che dovrebbe essere e fare la Fed, magari durante una nuova presidenza Trump col Congresso controllato dai Repubblicani. Il problema di questa ricerca del Sacro Graal della stabilità monetaria risiede in primo luogo nella definizione di cosa è stabilità monetaria. Nel mondo ci sono ancora, a intervalli ricorrenti, numerosi orfani del Gold Standard.

Questo mitologico ancoraggio ha preso le sembianze delle criptovalute, soprattutto del bitcoin, con la sua fascinazione per la quantità finita della moneta. Un fenomeno alimentato da periodi di forte creazione monetaria da parte delle banche centrali. Al punto che anche il successo delle criptovalute è da mettere in relazione alla forte liquidità esistente nel sistema, alla costante ricerca di una “alternativa” rassicurante e stabile. Le criptovalute sono figlie illegittime delle banche centrali e della creazione monetaria, alla fine.

IL PANIERE DI MATERIE PRIME

Puntare su un paniere di materie prime, allora? La prima risposta viene da un editoriale su Bloomberg dell’economista Tyler Cowen, neoclassico e libertario “ben temperato”. Cowen osserva che le quotazioni delle materie prime appaiono molto instabili. Dal 1989 al 1994, l’inflazione cumulata statunitense aumentò del 19% ma i prezzi della maggior parte delle materie prime subirono una flessione. Dal 2004 al 2008, i prezzi delle materie prime aumentarono di circa tre volte ma l’inflazione restò bassa e stabile, in un intorno del 2% annuo.

La sostanzialmente inelastica offerta di materie prime nel breve termine può determinare veri e propri strappi ai prezzi. Se la Fed legasse il cambio del dollaro al prezzo delle materie prime, durante lo shock dell’invasione russa dell’Ucraina avrebbe dovuto alzare i tassi per inseguire il maggior prezzo del paniere di materie prime. Il risultato finale sarebbe stato un doppio shock recessivo. Tornando agli esempi storici, tra il 2004 e il 2008 la Fed avrebbe dovuto rispondere al forte aumento dei prezzi delle materie prime alzando aggressivamente i tassi. Ciò avrebbe depresso l’economia e, partendo da un’inflazione al 2%, il risultato verosimile sarebbe stata una deflazione, con fallimenti a catena.

Quindi, non pare esistere una regoletta del pollice per gestire la politica monetaria col pilota automatico. La Fed già osserva l’andamento delle materie prime, e lo incorpora nei propri modelli. Pensare che esista il proiettile d’argento è, al solito, illusorio. Senza contare la variabile umana, concetto che ripeto da sempre: non esistono regole meccaniche destinate a resistere, nelle attività umane. Le regole sono costrutti sociali, e come tali esistono solo sino al momento in cui la collettività decide di liberarsene. Incluse -ad esempio- le regolette di bilancio pubblico del tipo tetto alla pressione fiscale complessiva o alle spese. Specularmente, l’economia è una entità umana e in costante evoluzione. Da qui i variabili ritardi e anticipi degli impatti di politica economica.

Nel suo editoriale, Cowen suggerisce alle banche centrali di controllare gli aggregati monetari tipo M2 o M3, ma ricade nella stessa fallacia che denuncia per le materie prime: non esiste relazione stabile tra offerta di moneta e andamento del livello dei prezzi. Certo, si potrebbe ribattere che, se cresce l’offerta di moneta, è solo questione di tempo prima che l’inflazione si materializzi. Sì, ma “quanto tempo”? Ritardi variabili, spesso molto estesi, che fornirebbero alla politica la motivazione per stimolare l’economia sostenendo di poter ritirare lo stimolo prima che i guai si materializzino.

Prendete come esempio la poderosa e concentrata stretta monetaria che stiamo vivendo in Occidente. Il mantra è “la politica monetaria esercita i suoi effetti in un arco di tempo variabile” Di solito, si dice, tra 12 e 18 mesi. E se così non fosse e si andasse oltre? Se, quando è iniziata la stretta monetaria, qualcuno ci avesse detto che 5 punti percentuali dopo avremmo ancora avuto disoccupazione invariata e molto bassa, non ci avremmo creduto. Lo stesso Jerome Powell ha definito questa situazione “una benedizione”. Vero ma con le “benedizioni” non si comprende dove ci si sta dirigendo, di solito. E da dove potrebbero sbucare i guai.

E così, continua la ricerca del Sacro Graal o meglio del Sacro Pilota Automatico con cui condurre la politica monetaria ma anche quella fiscale. L’umanità è predestinata a ripetere le proprie illusioni.

P.S. L’eccesso di liquidità nel sistema economico tende a causare inflazione degli attivi (asset inflation), anche se non immediatamente inflazione tradizionale legata ai prezzi al consumo. Anche per questo, servirebbe considerare il processo di finanziarizzazione spinta che ha interessato negli ultimi anni le quotazioni delle materie prime. La forte instabilità di breve termine del loro prezzo origina anche da questo. Forse in futuro Tyler Cowen svilupperà il concetto. Quindi sì, le banche centrali devono astenersi da creare liquidità in eccesso. Il nostro problema è capire e quantificare il concetto di “eccesso”, nel tempo e nello spazio.

 

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