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Includere e non escludere. Per sconfiggere l’Isis

Per sconfiggere l’Isis “i raid aerei non bastano”. Occorre un accordo globale delle potenze mondiali e regionali che apra la strada a un nuovo assetto geopolitico con governi che assicurino “una condivisione del potere specialmente in Siria e Iraq” per mettere fine alle contrapposizioni confessionali. Ad affermarlo è Bassel Saloukh, professore associato alla Lebanese american university (Lau) di Beirut.

“Se non si arriverà a questo, lo Stato Islamico rischia di diventare una presenza permanente nella regione, come i Taleban in Afghanistan”, aggiunge Saloukh in un’intervista all’ANSA. E se un’azione congiunta a livello internazionale sembrava molto difficile fino ad ora, gli attentati di Parigi potrebbero spingere le grandi potenze verso una maggiore collaborazione.

“Per anni – sottolinea l’analista – si è pensato che le conseguenze della guerra in Siria si sarebbero limitate ai Paesi confinanti della regione. Ma ora si è visto che possono arrivare fino a Parigi, e oltre. E bisogna fare qualcosa”.

Le ragioni che hanno portato alla nascita del ‘Califfato’ di Abu Bakr al Baghdadi e alla sua conquista fulminea di vasti territori in Iraq e Siria non sono solo di carattere religioso, e non sono di oggi. Fin dall’invasione anglo-americana del 2003 in Iraq, che portò all’abbattimento di Saddam Hussein, vasti strati della popolazione sunnita si sono sentiti discriminati dalle politiche dei nuovi governi a guida sciita, vicini all’Iran. Anche questo ha favorito la diffusione di Al Qaida nel Paese, dalla quale è nato l’Isis.

Un’organizzazione che è riuscita a ottenere con la sua propaganda fondamentalista sunnita il sostegno di almeno una parte degli appartenenti a questa confessione e di diversi clan tribali sunniti. E nell’Isis sono entrati anche, con importanti incarichi di comando militari, ex dirigenti dello stesso regime di Saddam Hussein. “In Iraq stanno vincendo gli uomini di mio padre”, disse nell’estate del 2014 una raggiante Raghad Hussein, figlia dell’ex dittatore, dopo la presa di Mosul e Tikrit da parte dei jihadisti.

In Siria, sottolinea il prof. Saloukh, il conflitto non è nato per motivi confessionali, ma è stato in seguito “confessionalizzato”, con la contrapposizione tra maggioranza sunnita e minoranza sciita, alla quale appartengono gli alawiti del presidente Bashara al Assad. E se si riuscisse a eliminare questo fattore l’Isis non potrebbe più contare sui territori e sui consensi che ha oggi.

“Per sconfiggere il confessionalismo – prosegue il docente della Lau – ci vuole una decisione politica di tutti per mettere fine alla guerra geopolitica che combattono in Siria. Questo potrebbe portare a un intervento militare anche sul terreno, a una guerra ideologica per demistificare la propaganda dell’Isis e al prosciugamento dei finanziamenti per i jihadisti”.

Ma tutto questo dovrebbe andare di pari passo con la formazione di “sistemi politici inclusivi” che mettano fine alle discriminazioni. Non solo in Siria e Iraq, ma anche in Yemen e in altri Paesi della regione.

“Per la Siria, per esempio, vedo una soluzione per la condivisione dei poteri come in Libano nel dopo guerra civile, almeno nel breve periodo”. In questa soluzione dovrebbero rientrare, secondo Saloukh, anche i curdi, oggi in prima linea nella guerra al ‘Califfato’. “Non sarebbe necessaria la creazione di uno Stato, ma, anche in Siria, la costituzione di una regione con forti poteri autonomi come nel Kurdistan iracheno”.

(di Alberto Zanconato, per Ansa, 24 novembre 2015)

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