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In Iraq continuano le stragi

A dieci anni dalla fine della guerra, l’Iraq è contrassegnato dalle divisioni etniche e religiose che, insieme alla recrudescenza degli attentati, condizionano il paese in chiave di sviluppo economico e sociale. Gli Usa restano ancora "impantanati", mentre i petrolieri russi sono sempre più vicini. E l'Iran non molla la presa.

 

Attualmente, almeno nel mondo occidentale, l’Iraq sembra essere scomparso dalla carte geografiche. Gli ultimi richiami risalgono forse al 2010, quando il presidente americano Obama annunciò il ritiro dalle truppe dalla Mezzaluna fertile, come promesso durante la sua compagna elettorale. Il governo statunitense ha provveduto al ritiro dei 100.000 uomini impegnati in Iraq e al successivo trasferimento di centinaia di basi militari al personale iracheno. “Iraqi freedom è conclusa: gli iracheni sono ormai responsabili della sicurezza del loro paese”, dichiarò in quella circostanza il presidente, rivolgendosi alla propria nazione senza trionfalismi e senza mai nominare la parola vittoria.

Ma tra le sponde del Tigri e dell’Eufrate, nel cuore del Medio oriente, dove un tempo re Hammurabi governava con regale sacralità, una lunga e logorante transizione democratica sta prendendo faticosamente piede dal termine ufficiale della guerra, il primo maggio 2003. Tante sono le contraddizioni dell’Iraq moderno.

Alle numerose divisioni di carattere etnico, tribale e religioso, si aggiungono i paradossi contenuti nella nuova costituzione approvata nel 2005, oltre ai crescenti e assillanti condizionamenti politici delle principali potenze islamiche vicine, quella sciita persiana rappresentata dell’Iran a cui si contrappone l’influenza wahabbita dei paesi arabi del golfo.

Sull’Economist si legge che, dopo un arco di tempo di quasi cinque anni in cui sembrava che l’Iraq avesse superato lo spettro della guerra civile, il Paese è ripiombato nell’incubo degli attacchi a spirale, condotti verso una gamma sempre più ampia di obiettivi. Gli ultimi quattro mesi sono stati tra i più sanguinosi dal 2008; si contano circa tremila vittime e più di settemila feriti; solo nel mese di luglio si sono registrate settecento uccisioni causate da attentati. Sembra che i terroristi abbiano ampliato il proprio campo d’azione, passando dagli attacchi verso le forze di sicurezza sciite alle stragi effettuate in moschee e mercati, per arrivare agli atti terroristici messi a punto in caffè e raduni funebri.

Gli ultimi tragici attentati, che risalgono proprio al 10 agosto, sono avvenuti con esplosioni simultanee che hanno fatto strage di civili nelle vie dello shopping e nei mercati di quartieri a maggioranza sciita a Baghdad e a Tuz Khurmato, località situata a 170 chilometri dalla capitale. Gli attentatori hanno disposto dieci ordigni, di cui nove autobomba. L'ultimo a esplodere era stato piazzato in un parco giochi affollato da bambini e genitori nel quartiere di Kadhimiya, nella zona settentrionale di Baghdad. Le altre autobomba hanno colpito in tutta la città: a est e a ovest, a sud e a nord. Le fonti hanno detto che numerosi bambini sono morti o sono rimasti feriti. Si sono registrate più di sessanta vittime, la maggior parte delle quali stava celebrando la festività dell'Id al-fitr, che dura tre giorni e segna la fine del mese sacro del Ramadan.

Nel nord, dalle province di Diyala, Kirkuk e Ninive fino alla provincia di Anbar a ovest, è in atto una vera e propria lotta per il controllo dei territori, che sta alimentando un mix letale tra una rinata presenza di al-Qaeda, nuovi gruppi estremisti sunniti e le riemergenti milizie sciite. I funzionari di sicurezza iracheni rivelano di aver catturato o ucciso più del 70% delle persone affiliate ad al-Qaeda nell’area di Baghdad, vanificando numerosi attacchi contro le stazioni di polizia e i ministeri.

Il progressivo aumento del tasso delle violenze ha portato il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, a lanciare un monito sulle cause dell’allarmante recrudescenza di atti terroristici, che vede come principali motivazioni la situazione di stallo politico iracheno e il conflitto acceso in Siria.

Il 16 luglio Martin Kobler, inviato uscente delle Nazioni Unite in Iraq, ha rivelato al Consiglio di Sicurezza che “i campi di battaglia di Iraq e Siria si stanno fondendo”. In effetti, il governo iracheno è così preoccupato per i combattenti sunniti provenienti dalla Siria al punto tale che, lungo il confine dilaniato dalla guerra, vengono quotidianamente scavate profonde trincee e costruiti alti terrapieni.

I sunniti sono sempre stati un pilastro nella società irachena: per secoli hanno gestito il potere, vezzeggiati dai paesi arabi vicini. Ma dopo la caduta di Saddam Hussein, privi di guida e disorientati, sono rimasti abbandonati a se stessi, costretti a scegliere tra la lotta politica e quella armata. Il 15 dicembre 2005, votando in massa alle elezioni parlamentari, molti di loro sembrano aver scelto la prima. Dai suffragi non sono mancati gli auspici positivi: dalla migliore organizzazione politica all’affermazione dei partiti laici, l’esito delle elezioni lasciava intravedere delle buone opportunità nel recupero di un ruolo politico da parte dei sunniti. Sotto un’altra prospettiva, permane uno scoglio arduo da circoscrivere: la Costituzione.

L’ordinamento giuridico che rappresenta il nuovo Iraq è a tutt’oggi incompleto; istituzioni quali difesa, politica estera, diritti delle donne e finanze rimangono prerogativa esclusiva del governo centrale, mentre il potere economico e sociale è nelle mani delle autorità regionali e provinciali; l’unico federalismo riconosciuto è quello curdo, ma l’ambiguità della Costituzione irachena permette a più province di unirsi per ottenere lo status di autonomie federali. Tra i principali disegni federali va fatto presente quello che riguarda l’aggregazione di tre province del Sud-Est attorno alla città di Bassora (Grande Bassora); area che, da sola, ha una capacità di produzione petrolifera che si avvicina a quella del Kuwait. Alternativo è invece il piano di raggruppamento dell’intera area a maggioranza sciita, che andrebbe così a costituire lo “Sciistan”. Di converso, con lo scopo di controbilanciare la presenza curda nel Nord-Est (Kurdistan), sorgerebbe la Federazione sciita-sunnita composta, oltre che dal Sciistan, anche dal Sunnistan a maggioranza sunnita, che avrebbe come capitale Samarra.

Ma i cleavages religiosi restano insuperabili nell’Iraq di Nuri al-Maliki, tant’è vero che l’ex premier iracheno e leader della lista sunnita al Iraqiya, Iyad Allawi, ha chiesto le immediate dimissioni dell’attuale primo ministro, sollecitando la coalizione sciita che lo ha incaricato di nominare un sostituto. La richiesta di Allawi arriva in seguito all’attacco contro le carceri di Abu Ghraib e Taji, fuori Baghdad, che ha portato alla conseguente fuga di detenuti appartenenti ad al Qaeda. Un episodio che ha acceso una spia sulla pessima organizzazione da parte delle forze di sicurezza irachene, attestata in una relazione iniziale della cellula di crisi, in cui si legge che alcune delle guardie avrebbero collaborato nell’attacco”.

La detenzione di molti prigionieri reclusi ai sensi della legislazione contro il terrorismo in Iraq ha causato un’intensa frizione tra sciiti e sunniti, dove i secondi sostengono che molti correligiosi sono stati ingiustamente imprigionati o accusati di reati di terrorismo. Secondo una rivelazione di Al-Qaeda, sarebbero stati liberati più di 500 prigionieri, a fronte di 120 guardie irachene uccise. I funzionari di Baghdad hanno invece indicato un numero inferiore di fuggitivi, senza specificare il totale, riferendo che almeno 25 membri delle forze di sicurezza irachene avrebbero perso la vita, insieme a 21 detenuti e 10 militanti.

Un’altra indeterminatezza contenuta nella nuova costituzione dell’Iraq riguarda il settore energetico, in particolare la gestione del petrolio. Quando nel 2004 a Londra fu presentata una strategia energetica per l’Iraq, in occasione di un convengo cui hanno partecipato le principali compagnie angloamericane, al termine della conferenza traspariva l’impegno, da parte delle companies, di una permanenza a lungo termine in Mesopotamia.

Alla drastica strategia neoconservatrice, che puntava ad una privatizzazione selvaggia dei pozzi petrolifero, si è andata via via sostituendo quella concepita dalle principali compagnie americane ed europee, che intendono piuttosto impostare con gli iracheni una politica di production sharing agreements, ovvero un sistema di assistenza al Ministero del Petrolio e alle compagnie statali irachene, offrendo gratuitamente ai tecnici addestramento e formazione in cambio della spartizione delle principali zone di interesse: la Shell al Nord, la Chevron-Texaco nel Kirkuk e nel Rumayla del Sud, la Bp nel Rumayla del Nord e la Exxon un po’ dappertutto.

In tale quadro subentra l’ambiguità dell’ordinamento costituzionale, che all’art. 109 imponenza la permanenza della proprietà di gas e petrolio al popolo iracheno, escludendo quindi le ipotesi di privatizzazione. Di converso, un’altra norma autorizza la competizione per lo sfruttamento ottimale dei giacimenti, dando carta bianca alla regole del libero mercato, il che scagiona in pieno la production sharing agreements progettata dalle companies occidentali; in pratica, la proprietà legale delle risorse rimane nelle mani dello Stato, mentre le società investono per l’esplorazione e lo sfruttamento con contratti dai 25 ai 40 anni, periodo in cui esse potranno recuperare il capitale investito accaparrando una quota variabile dal 40% al 60% del reddito.

A questi moniti si ricollegano le accuse all’ex governo Bush, sciorinate da più parti: tra i suoi oppositori politici, vale la pena di citare il parlamentare democratico Waxman, che, attraverso un reportage, denuncia gli sprechi, le frodi e gli abusi che hanno indebolito gli sforzi di ricostruzione dell’Iraq; il suo dossier parla di 12 miliardi di dollari inviati dalla Federal Reserve per coprire i costi della ristrutturazione del Paese iracheno che si sono smaterializzati tra gli interessi di compagnie petrolifere private e contractors di dubbia professionalità. E’ scontato, a questo punto, ribadire che senza un autorevole controllo su tutti i fenomeni inaspettati e su tutti i comportamenti che producono profitti illeciti, vantaggi politici indebiti, sviluppo economico non trasparente, atti di violenza e intolleranza non sarà possibile auspicare l’edificazione di una struttura nazionale democratica e trasparente.

Se per un certo verso non bastasse la corruzione a dilaniare la già fragile congiuntura economica del Paese, acomplicare ulteriormente la situazione ci pensano le oscillazioni relative all’export petrolifero. Come ha sottolineato la parlamentare della commissione “energia e petrolio”, Suzan al-Sa’ad, il declino della produzione di greggio nel corso del 2013 porterà ad un conseguente deficit nel bilancio federale del 2014. Secondo il rapporto del Ministero del Petrolio, le esportazioni dell’oro nero sono diminuite durante lo scorso giugno di sette milioni di dollari al barile, dopo il sabotaggio operato ai danni del gasdotto settentrionale e le pessime condizioni climatiche che hnno imperversato nelle aree di estrazione. Sa’ad ha dichiarato a IraqiNews.com che “il bilancio federale dipende in primo luogo dalla quantità di petrolio esportata. Se le esportazioni di greggio diminuiscono, il bilancio subirà un forte deficit.”

Il portavoce del ministero del Petrolio, Asim Jihad, ha ribadito alcuni giorni fa che le esportazioni di petrolio, da giugno, sono scese a 69,8 milioni d dollari al barile; vale a dire, in media, di 2.326.000 barile al giorno. Se questi dati vengono confrontati con il livello delle esportazioni di petrolio raggiunto durante il maggio scorso, di 76.900.000 barile al giorno, il calo risulta evidente.

Stando agli ultimi sviluppi in tema di petrolio, sembra che Il primo ministro Nouri al-Maliki abbia recentemente ricevuto diverse attenzioni da parte del Cremlino, le quali manifesterebbero le attendibili intenzioni delle compagnie petrolifere russe di lavorare presso i campi di Kirkuk. Secondo alcune indiscrezioni provenienti dal settore petrolifero russo, un messaggio inviato da Mosca al premier iracheno indicherebbe che l’azienda Lukoil è interessata alla zona Kirkuk, senza menzionare ulteriori dettagli.

Durante la sua ultima visita a Mosca effettuata nel luglio scorso, Maliki ha discusso con Wahid Ali Akbarouv, presidente della Lukoil Co., le prospettive di cooperazione reciproca. Maliki ha in seguito dichiarato che l’Iraq sta cercando di aumentare la sua produzione di petrolio, espandendo le industrie del greggio per inaugurare nuove raffinerie . Inoltre, ha assicurato che al nome della Lukoil Co. risponde un’azienda affidabile. Lo stesso Akbarouv ha rimarcato che l’intento della sua compagnia sta nell’obiettivo di raddoppiare gli investimenti nel settore delle industrie petrolchimiche attraverso l’estrazione del greggio. Negli ultimi tempi, la Lukoil Co. sta lavorando nel giacimento petrolifero di Gharb al-Qurna, nel sud dell’Iraq, che dovrebbe essere inaugurato entro la fine del 2013.

L’attuale avvicinamento dei russi potrebbe rappresentare un’importante svolta in chiave geo-strategica, soprattutto alla luce de contrasti emersi con Washington in merito all’esclusione dell’ExxonMobil Corporation dall’audizione della commissione del ministero del Petrolio, organo che decide l’assegnazione di concessioni petrolifere. Difatti, così come accaduto nella vicenda riguardante la Chevron, Exxon Mobil nel 2012 ha deciso di abbandonare il sud dell’Iraq, per concentrarsi sulle operazioni estrattive nella regione autonoma del Kurdistan, suggellando questo spostamento previa un contratto stilato con l’autorità regionale del Kurdistan iracheno.

Mossa evdentemente non gradita a Baghdad, dove ogni accordo concluso direttamente con l’autonomia curda è considerato illegale. Questa faccenda ha ulteriormente inasprito i rapporti con il governo Obama, che proprio in questo periodo sta riconsiderando le strategie da adottare per ridefinire il ruolo degli Usa in Iraq.

Rimanendo sull’argomento energetico, secondo quanto riferito da un funzionario del Ministero dell’Energia iracheno, la nazione posta tra il Tigri e l’Eufrate sarebbe intenzionata ad investire fino a 1,6 miliardi di dollari nella realizzazione di centrali solari ed eoliche nei prossimi tre anni. L’obiettivo al centro del progetto governativo è quello di riuscire ad aggiungere alla rete elettrica nazionale 400 MW di potenza e contenere in questo modo i frequenti blackout che affliggono il territorio.

Secondo il portale delle energie rinnovabili, Baghdad risulta incapace di garantire ai propri cittadini una regolare erogazione di energia elettrica, producendo internamente solo 8.8 GW dei 14 GW necessari. La fatiscente infrastruttura di distribuzione nazionale fornisce solo poche ore di energia durante il giorno, lasciando gli iracheni a soffocare nei mesi estivi, quando le temperature possono superare i 50 gradi Celsiu, e portando alla continua fioritura di vere e proprie di giungle di generatori elettrici di ogni dimensione e fitte reti di fili che si districano tra case e negozi.

La nuova misura voluta dal potere centrale dovrebbe arginare almeno in parte il problema. Il Ministero ha già stanziato 200 milioni di dollari nel bilancio del 2013 per istallare i primi 50 MW rinnovabili. Laith al-Mamury, che guida il dipartimento di pianificazione del Ministero dell’Energia, ha spiegato che Baghdad ha già inviato gli inviti a oltre due dozzine di produttori e costruttori di progetti eolici e solari.

Infine, negli ultimi tempi una nota positiva è riportata dal settore turistico. Difatti, in un servizio realizzato da Repubblica, numerose immagini da Baghdad mostrano il primo tour organizzato “per occidentali” nei luoghi sacri della capitale irachena. Europei e americani scoprono templi musulmani quasi millenari e qualche memoria “tardo-imperiale” britannica. Il turismo non locale ha cominciato a manifestarsi nel paese medio-orientale da qualche tempo, dapprima tenendo un “basso profilo” (tour organizzati da agenzie occidentali, in particolare inglesi, ma nelle località del Nord, come Bassora, su anonimi van, cercando di dare il meno possibile nell’occhio).

Soltanto da pochissimo si è affacciato sulle strade della capitale, dove i problemi non mancano, tra scontri uniti alla presenza di una polizia che controlla tutto e tutti. Ma coloro che hanno osato avventurarsi sulle spoglie dell’Antica Babilonia con il tour operator specializzato britannico, Hinterland Travel, si dicono soddisfatti, sia della qualità dei servizi alberghieri ricevuti che della globale “tranquillità” del viaggio.

Tante sono le incognite che gravitano su uno stato che ormai non esiste più, almeno sotto il profilo funzionale. Un altro fattore di considerevole rilevanza per le dinamiche interne dell’Iraq è la posta in gioco per il controllo delle istituzioni. Riyad sostiene Iyyad Allawi, che ha vinto di misura le consultazioni di marzo 2010 – 91 seggi contro 89 del suo diretto avversario – Maliki, appoggiato di fatto da Teheran. Al di là della vittoria ottenuta dalla coalizione a tendenza laica del Movimento Nazionale Iracheno, la presidenza è rimasta nelle mani di Maliki, confermato nel dicembre 2010 dopo otto mesi di stallo grazie alle pressioni statunitensi.

L’obiettivo del regime khomeinista è ovviamente quello di escludere i leader sunniti dal futuro governo, in modo da insediare un esecutivo dipendente da quello di Teheran, attraverso l’influenza del potente generale Qassem Suleimani, comandante dell’unità speciale Quds dei Pasdaran (i guardiani della Rivoluzione islamica), sanzionato dal Consiglio di sicurezza dell’ONU per aver fornito armi al regime di Bassad al Assad con lo scopo di reprimere le proteste in Siria.

In un articolo scritto sul The Guardian dal corrispondente Martin Chulov, si legge che Suleimani avrebbe minato gli sforzi di dialogo del contingente militare alla guida di David Petraeus tra la popolazione irachena e in altri Paesi arabi, imponendosi come il principale interlocutore dei musulmani sciiti. Addirittura molti politici dell’attuale Iraq hanno ammesso, nelle interviste effettuate da Chulov, che Qassem Suleimani è l’uomo chiave per ogni decisione presa nel Paese.

 

Foto: Us Army/Flickr

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