• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tempo Libero > Recensioni > Immigrazione: Selim e la sua traversata del Mediterraneo | I pesci devono (...)

Immigrazione: Selim e la sua traversata del Mediterraneo | I pesci devono nuotare, di Paolo Di Stefano

Per quanto sia fervida la nostra immaginazione, capire le ragioni, i sentimenti e le emozioni di chi si avventura in un viaggio rischioso attraverso il Mediterraneo in cerca di maggiore fortuna ci è impossibile. 

La nostra vita, più o meno agiata, è troppo lontana dalla realtà di chi sogna un’altra esistenza e comprenderlo diventa impresa ardua. Eppure la necessità di conoscere il fenomeno della migrazione è importante. È indispensabile per percepire le vicende del mondo, la disperazione di chi scappa e le possibili politiche di accoglienza a un fuggire destinato a crescere con l’aggravarsi della crisi ambientale. Un aiuto a provare empatia per i migranti arriva da Paolo Di Stefano, autore del romanzo “I pesci devono nuotare” che narra le vicende reali di Selim, minorenne egiziano che si imbarca per raggiungere “il” sogno, l’Italia. Un’odissea raccontata in prima persona dal giovane africano del quale riportiamo alcuni brani per gentile concessione dell’autore.

 

Mi chiamo Selim

Mi chiamo Selim, sono nato in un villaggio di campagna a molti chilometri dall’Italia, migliaia di chilometri, in luoghi che non potete conoscere ma che facendo un piccolo sforzo potete immaginare, perché lì non c’è deserto e il paesaggio è verde come qui. Non proprio qui, ma insomma, quasi.

Il deserto è più lontano.

Mia madre è cresciuta analfabeta, troppo povera per studiare, ma molto più intelligente di tante mamme che hanno studiato. La sua famiglia voleva solo che aiutasse in casa, niente scuola. Mia madre è la madre più dolce ed affettuosa che abbia mai conosciuto. Mio padre, invece, è un uomo duro, severo, testardo, sacerdote e contadino, ha sempre parlato poco, perché lavora tutto il giorno e non ha tempo per parlare e dedicarsi ai figli.

…mio padre diceva: “Devi allungare i piedi sin dove c’è la coperta”. Mai guardare cos’hanno e cosa fanno gli altri, diceva, altrimenti ti viene un buco nella personalità e finisce che non ti accontenti mai di niente… Per questo è meglio non desiderare. Mio padre diceva che è meglio faticare, perché solo la fatica ti insegna a vivere senza desiderare.

L’Italia era un sogno

Sì, sì, l’Italia era un sogno. L’Italia era il sogno.

A casa avevamo un televisore in bianco e nero che trasmetteva solo canali egiziani, ma le notizie sull’Italia arrivavano ugualmente e i ragazzi fantasticavano. E’ stato mio padre a parlarmi per la prima volta di partire per dare un sostegno alla famiglia che non ce la faceva proprio più…

Il nonno era appena morto e la nostra famiglia era nei guai, le bestie dimagrivano e i campi erano asciutti… Si mangiava fave e anche le uova scarseggiavano. Pecore poche.

Era impossibile andare avanti, impossibile.

Mia madre piangeva più del solito e io in segreto, molto in segreto, dicevo che questa volta mio padre aveva ragione. Ma forse per quel dispetto che si meritava, gli ho risposto che non volevo partire e che volevo continuare a studiare. Non era la verità… Quel che sapevo era che non volevo rimanere al paese, un po’ per mio padre…un po’ perché anche le capre soffrivano e non c’era lavoro, a parte la campagna asciutta e le povere bestie, un po’ perché volevo andarmene e basta.

In mare

…La nave che doveva portarci in Italia non era proprio una nave, era un barcone di legno lungo e grosso. Ci siamo seduti per terra con le gambe aperte e piegate, in modo che quello davanti potesse sedersi tra le gambe di quello che gli stava alle spalle per sfruttare al massimo gli spazi. Non ci si poteva muovere, né avanti né indietro né di lato.

Appena siamo partiti tre sorveglianti si sono buttati in mare e sono tornati a riva a nuoto. Gli altri sono rimasti lì e cercavano di calmarci, dicevano di stare zitti ed erano molto nervosi. Era la prima volta che salivo su una nave e non sapevo neanche nuotare, ma non avevo paura. Un po’ di schifo sì, quando il ragazzo che stava dietro di me, appiccicato a me, ha cominciato a star male e a vomitare, afferrandomi per le spalle. Provavo pietà per lui. E schifo.

Appena la nave oscillava, la gente cominciava a pregare sottovoce quasi in coro mentre i bambini continuavano a piangere e a lamentarsi, qualcuno urlava, e le madri sospiravano come fossero una mamma sola. Come fossero mia madre.

C’era un uomo anziano, sui cinquant’anni, sdraiato lì vicino a un bidone, che stava male e chiedeva un dottore. Non c’era luce, soltanto una lampadina fioca appesa a un filo che rimaneva accesa, e riuscivo a vedere a stento la sua sagoma accartocciata per terra nell’acqua. Già nella villa l’avevo notato, si teneva la pancia e si lamentava, mi ero avvicinato a lui per chiedergli: «Perché parti se stai male?”, e mi aveva risposto a singhiozzi che partiva per pensare al futuro dei suoi tre figli, che erano piccoli. A un certo punto, lì sulla nave, non si è più sentito e qualcuno l’ha portato via.

Non so dove l’hanno portato e non ho voluto chiedere all’aiutante quando l’ho rivisto, mentre si dava da fare in un angolo con delle donne che gli domandavano qualcosa. Secondo me l’hanno buttato in acqua e non solo lui, anche altri sono finiti nel mare, ho sentito che qualche donna e qualche bambino hanno dovuto buttarli giù perché era inutile appesantire la barca se qualcuno non ce l’aveva fatta a resistere, inutile tenerli lì morti o quasi morti.

Il viaggio è durato quaranta ore o forse ottanta o forse di più o forse di meno. Eravamo partiti verso le tre di notte e siamo arrivati col buio… E alla fine, dopo aver sperato per tante ore di raggiungere la terra, vedi le luci dell’Europa. Si capiva che erano proprio luci europee. Sognavi l’Europa, anzi lItalia, proprio l’Italia, senza sapere bene che cosa fosse, ma la sognavi ugualmente, e ora eccola lì che si avvicinava. Non credevi ai tuoi occhi. L’Europa, l’Europa, l’Europa. L’Italia, L’Italia, 1’Italia, e tu sei vivo.

Uscire dal silenzio…imparare a parlare

Io allora non sapevo neanche cosa fosse la Sicilia. Era il 19 dicembre, mezzanotte, ma la notte era finita. La prima immagine che ho ancora nella testa sono le luci rosse e calde nella notte, le urla della guardia costiera, le voci dei soccorritori… In quella confusione mi vedo davanti agli occhi i primi occhi italiani che abbia mai visto, erano gli occhi di una giovane donna che mi coperto con una felpa e l’unica possibilità era comunicare con il linguaggio universale degli occhi. Così senza parlare lei mi ha detto quello che c’era da dire e io le ho detto quello che potevo dirle…

…poi ho pensato che lasciare il tuo paese per andare a mangiare, a bere, a lavarsi e andare al gabinetto in un altro paese non valeva la pena. Avrei voluto comunicare, parlare, capire, farmi capire, era questo che mi mancava. Comunicare con gli altri. Mi interessava soprattutto imparare a parlare.

Quando sono arrivato a Milano, dopo essere scappato con altri ragazzi dal centro di accoglienza in Sicilia, mi ha ospitato mio zio. Ma in quella casa dove viveva anche un altro egiziano suo amico, si parlava arabo, si cucinava egiziano, si pregava come a casa, era come vivere al villaggio con i miei genitori anche se mi trovavo a Milano, la stessa vita a parte il freddo e l’umido nei piedi e nel naso.

Io cercavo qualcosa di nuovo, l’Italia è stata il mio passo lungo e coraggioso, volevo viverci come gli altri, muovermi, parlare, lavorare, camminare, respirare, attraversare le strade, niente di particolare, mangiare parlare, lavorare, vivere.

… di notte prendevo un foglietto e una penna, mi sedevo sul divano dove dormivo, guardavo la televisione e scrivevo certe frasi e certi vocaboli che ascoltavo… Il giorno dopo, quando il signor Abdel che mi ospitava, tornava dal lavoro gli leggevo le parole nuove e gli chiedevo il significato Spesso le parole che trascrivevo erano incomprensibili, erano mie invenzioni assurde che facevano ridere molto i denti bianchissimi del Signor Abdel.

Conoscere l’italiano era il mio sogno di allora. Il vocabolario divenne il mio Corano… non smettevo di studiare e di mandare a memoria i sinonimi e i contrari…. Si comincia sempre dalle parole, riflettevo, e si finisce con le parole.

Mi ero iscritto alla scuola media.

Selim sapeva cosa voleva Selim.

Da qui ha inizio il volo

L’autore

Paolo Di Stefano (Avola, 1956) è inviato speciale del “Corriere della Sera”. È autore di numerosi romanzi tra cui: Baci da non ripetere (1994); Azzurro troppo azzurro (1996, Premio Grinzane Cavour); Tutti contenti (2003, Superpremio Vittorini e Superpremio Flaiano); Aiutami tu (2005, SuperMondello); La catastròfa (2011, Premio Volponi); Giallo d’Avola (2013, Premio Viareggio-Rèpaci); Ogni altra vita (2015, Premio Bagutta).

Scheda
Autore: Paolo Di Stefano
Titolo: I pesci devono nuotare
Pagine: 304
Immagini: no
Prezzo: 17 euro (2017)
Editore: Rizzoli
Anno: 2016
Sito: www.rizzoli.eu

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità