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Il viaggio dalla Siria alla Turchia, fino alla Grecia. Poi è tutta Europa

di Elisabetta d’Ortu, per SiriaLibano

Ho passato una notte accanto a Fadi, a mettere puntini su una mappa di Google. I puntini erano location condivise tramite WhatsApp. Arrivavano dalla Turchia e lentamente si muovevano da una città all’altra passando per il buio fino ad arrivare alla costa, lì, vicino alle isole greche.

Durante la notte, Fadi fissa il vuoto attraverso uno schermo di cellulare che non si illumina. E io penso a quello che mi ha raccontato il giorno prima, tornato dall’aver riabbracciato i fratelli che la Siria per anni aveva diviso. Non aveva pianto, né nel rivederli né nel risalutarli.

Amal, invece, piangeva. Con la faccia magra di chi ha passato gli ultimi anni a dormire cullata dal rumore delle esplosioni, a tratti sorridendo di un sorriso triste, felice di poter riabbracciare il fratello maggiore, malinconica per la separazione imminente.

Tra una sigaretta e l’altra, rompo ogni tanto il silenzio chiedendo “Novità?” e ricevo sempre la stessa risposta. Fadi continua a guardare il vuoto. I suoi occhi si spostano dallo schermo del cellulare a quello del computer. Un fratello e una sorella, Amir e Amal, hanno deciso di partire, via mare. I fratellini, invece, resteranno in Turchia col padre, vedranno come ricongiungersi in un secondo momento.

Fadi non li vedeva da anni, da quando era stato costretto a lasciare la Siria. La sua famiglia era rimasta lì, fino a due giorni fa, quando sono riusciti a trovare la forza di lasciare tutto e partire. “Sai, quando sono arrivati non li ho riconosciuti. Li ho lasciati grassocci e sorridenti. E non erano più loro. I bambini erano magri, mi hanno abbracciato, loro mi hanno riconosciuto, ridevano. Te lo immagini? Sono i miei fratelli. E dopo pochi anni non erano più loro”.

Non so cosa dire, accendo un’altra sigaretta e mormoro un verso incomprensibile. Un assenso silenzioso. Un invito a parlare, che però muore in un sorso di tè e in un sospiro.

Quando ormai sta per albeggiare un pin di location dalla costa. Ci siamo, stanno arrivando al punto di partenza. Dopo mezz’ora arriva una foto, si vedono loro con dei sorrisi stanchi e forzati imbragati nei giubbotti salvagente economici che nelle città turche si trovano come fossero giochi da spiaggia per bambini. Sullo sfondo, altre persone. Altri siriani che hanno deciso di prendere la via del mare. Mi colpisce una donna che non conosco: con un sorriso sta mettendo un giubbotto salvagente troppo grande a un bambino che non ha nemmeno un anno. Amir ci dice che non partiranno immediatamente: gli smugglers, i trafficanti, stanno preparando i gommoni. Ne vogliono far partire tre tutti insieme, un centinaio i siriani.

In attesa, ci addormentiamo, svegliandoci a intervalli di mezz’ora per aggiornare la mappa e per avere notizie. Ci dicono che stanno bene, in questo limbo. Ascoltano Fairouz e Sabah, aspettano. Alle 11 del mattino, dopo diversi caffè a stomaco vuoto, un messaggio vocale: “Yallah, stiamo partendo”.

Ma il telefono si spegne subito dopo, disobbedendo alle indicazioni di non disattivare mai il GPS. Dopo quindici minuti che sembrano un’ora, un pin nell’azzurro di Google Maps con un messaggio di spiegazione: “Il telefono si era bagnato, ma ora funziona”. Respiriamo. Fadi raccomanda loro di mandare location a intervalli regolari.

Sa che hanno abbastanza batteria nei cellulari. Quando ha saputo della loro decisione di partire, è volato in Turchia e ha parlato a lungo con loro; hanno comprato batterie di riserva, schede sim con abbonamenti internazionali, benzina in bottigliette di plastica, toppe per i gommoni, giacconi per il freddo del mare.

Fadi e due altri fratelli, in tre stati diversi, si mandano messaggi freneticamente tra di loro. Scrivono sui social network, monitorano i gruppi Facebook di supporto ai rifugiati che intraprendono la via del mare. Dopo venti minuti un altro pin. Sempre nel mare, in linea retta perfetta: i trafficanti sanno la loro via. Calcoliamo distanze percorsi e tempi: forse un’altra ora, ora e mezza e poi le coste greche. Inshallah, se Dio vuole.

Dopo mezz’ora, nessun segnale. Eppure sembra che siano andati online pochi minuti fa, perché non ci contattano? Iniziamo a chiamare, minuti di panico mentre nessuno risponde. Fadi controlla il meteo nell’area, preoccupato. Pochi minuti dopo, un tweet di uno sconosciuto annuncia quattro gommoni arrivati in Grecia, nella loro stessa presunta destinazione di arrivo. Iniziamo a crederci. Poi sul telefono di Fadi arriva un messaggio.

È il broker siro-turco, il contatto che in Turchia fa da mediatore tra i rifugiati e i trafficanti; dice che sono arrivati. Eppure, finché non sentiamo la loro voce “Sì, siamo fradici, parliamo dopo ma ce l’abbiamo fatta”, la tensione non si scioglie. Sorrisi e respiri liberatori.

Qualcuno su Twitter ha caricato anche i video dell’ultimo sbarco, cerchiamo le facce familiari a Fadi tra i salvagente che i rifugiati non si tolgono nemmeno scesi a terra. Non li troviamo, ma riconosco la donna che nello sfondo della fotografia metteva il giubbotto al bambino. Ce l’ha fatta anche lei. Finalmente Fadi sorride.

Non è finita, ora devono andarsene in cerca di un asilo che non è considerato un diritto innegabile. Se la parte del viaggio dove la loro vita era in pericolo è terminata, ora inizia quella dove la loro dignità è a rischio.

Ci richiamano dopo una decina di minuti e ci dicono “Ci stiamo incamminando!”.

Verso dove?

Verso la strada principale. Poi è tutta Europa.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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