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Il (super)mercato del lavoro

Il tema lavoro è scottante, ma a chi importa davvero? Forse solo a chi lo vive sulla propria pelle. Ci eravamo quasi abituati al miracolo, al colpo d'ala, al veloce guizzo prima dell'impatto. Invece poi arrivano certe notizie, vedi scorrere i comunicati sullo schermo e l'ottimismo scompare, le speranze sembrano velleità e si ha la sensazione di annaspare sempre e soltanto nella medesima pozza di acqua stagnante. 

Gli italiani si sanno salvare quando sono già a meno di un passo dal baratro: questo è il luogo comune ricorrente, che come tutte le frasi fatte contiene parecchia verità. Infatti gli italiani, proprio a 150 anni dalla loro trasformazione da espressione geografica ad entità statuale, hanno saputo sollevarsi da uno dei momenti socialmente e politicamente più bassi dai tempi del dopoguerra: lo ricordava domenica scorsa Massimo Gramellini, nelle pagine della Stampa di Torino.

Oggi, un anno dopo, possiamo guardare al “pericolo del contagio spagnolo” dall'alto di uno spread finalmente e giustamente inferiore al loro, e vedere Grecia e Portogallo dibattersi ancora fra le spire di una drastica cura imposta dall'UE e la tentazione di correre verso il default quasi fosse una soluzione migliore o diversa.

“E' incredibile, ve la cavate anche questa volta!” pare abbia sussurrato, con un misto di stupore e disappunto un finanziere di Wall Street ad un giornalista de “Il sole 24 Ore”. Diciamo che sì, potremmo farcela e diciamo che ormai dovremmo anche scegliere quale paese essere, dopo l'emergenza.
Non tutto ovviamente dipende da noi, ma solo noi potremmo suicidarci finanziariamente e politicamente con scelte simili a quelle del decennio ed anzi del ventennio precedente. Nessuno purtroppo dubita che ne saremmo anche capaci, aiutati in questo da una legge elettorale la cui riforma è lontana e che non ci permette di esprimere preferenze, e questa è una anomalia troppo sottovalutata del nostro Paese.

Ma non è solo su una prova elettorale insidiosa che noi potremmo scivolare: il cammino delle riforme per rendere l'Italia un paese normalmente attraente per tutti, cittadini giovani e non, investitori stranieri e italiani, è ancora lungo e accidentato. 

Lo dimostra la discussione che si è aperta intorno al tema della riforma del lavoro, un banco di prova delicato sul quale il governo rischia, consapevolmente, parecchio del proprio credito.
Dopo il decreto Salva Italia (i cui effetti sulle buste paga si vedranno da questo fine mese) e dopo le liberalizzazioni, è giunto il turno del lavoro dipendente da riorganizzare: e nessuno dubita che ce ne fosse bisogno.

Ma il tema è difficile, il momento storico anche di più e i lavoratori dipendenti si sono già visti allungare l'età pensionabile e diminuire l'entità delle pensioni stesse e la fiducia nell'esecutivo, al momento della presentazione della proposta di legge, è così calata dal 60 al 44%. Non una bella notizia, in assoluto, visto che finora il governo Monti aveva sempre potuto contare sulla fiducia popolare, ma per i politici nostrani in perenne soccorso del vincitore, è stato il varco che attendevano per far partire una bella rimpatriata attraverso le italiche battaglie per il nulla.


Infatti, approfittando della legittima preoccupazione dei cittadini, disorientati nel dover scegliere fra un passato insoddisfacente ed un futuro incerto, i nostri iperattivi rappresentanti stanno radunando munizioni, artiglierie, uomini e si preparano ad una guerra di posizione.

Dopo mesi in cui hanno dovuto accettare di rimanere in seconda e terza linea, limitandosi a scialbi commenti su provvedimenti che da soli non avevano avuto neanche il coraggio di immaginare, i nostri parlamentari aspettavano con timore che toccasse a loro, poiché anche la riforma elettorale sarebbe presto stata in agenda; ora, ringalluzziti dal momentaneo scampato pericolo, hanno fatto partire i primi giri di esternazioni, commenti e falsi richiami alla responsabilità. In altre parole, stanno iniziando i tornei di qualificazione per le future alleanze elettorali.

Non si sente, o meglio non si riesce più a sentire, una voce critica che cerchi di capire e spiegare le zone d'ombra e le aree di vantaggio di questo progetto di riforma, innovativo già per la sua sola presenza. Tutto sta per essere coperto dalla battaglia degli schieramenti, o di qua o di là, o con noi o con il nemico: proprio quello di cui non c'era bisogno. Si sta realizzando quello che già è accaduto con i No Tav, ormai ostaggio di fazioni che non riescono a tollerarsi, mentre gli abitanti della Valle devono convivere con le ruspe e avrebbero bisogno di ben altro sostegno.

Quello che appare chiaro è che di una riforma per l'offerta e la domanda di lavoro l'Italia non può davvero più fare a meno, ammesso che sia l'unico motivo (e ovviamente non lo è) per cui non arrivano investitori stranieri in Italia. Purtroppo anche con una maggiore, o migliore, flessibilità del lavoro saremo ancora un paese burocratizzato, spesso corrotto, dalle procedure incerte e dalla giustizia letargica.

Nello stesso tempo viene da chiedere a chi propone barricate per difendere un articolo 18 nei fatti spesso svuotato di significato, e svuotato proprio nei confronti delle classi sociali più deboli, le donne e i giovani, perché non dimostri tale spirito anche in altri contesti. Nello specifico, e a titolo esemplificativo, perché non si possono esaurire in due parole le numerosissime storture del mercato del lavoro, perché non si protesti ogni qual volta si firmano di comune accordo contratti di collaborazione a breve termine che sono in realtà pluriennali rapporti di lavoro continuativo e subordinato, o si impongono lettere di dimissioni pronte e firmate in cambio dell'agognata assunzione.

Soprattutto, serve qualcuno che si ricordi che i lavoratori in Italia non sono di due tipi: quelli che possono perdere l'impiego e gli altri, quelli che lo hanno come un vitalizio. Abbiamo tutti notato come ci si è precipitosamente sgolati a precisare che per il pubblico impiego la riforma non valeva: è vero, non è pensabile che un ente pubblico metta in mobilità per motivi economici, e in ogni caso c'è la ricollocazione presso altri enti. Detto questo però, i lavoratori sono tutti uguali e una legge che li ponga su piani diversi sarebbe incostituzionale per forza, e bene ha fatto il ministro Fornero a chiamarsi fuori dalla diatriba lasciando la patata bollente al collega Patroni Griffi.
Anche in questo caso comunque si è visto subito che i partiti vogliono tenersi le loro roccaforti con le quali giocare ancora ai sovrani che regalano posti di lavoro.

Infatti, mentre la multinazionale Ikea può permettersi di rispondere picche alle pressioni per assumere personale "segnalato", e ha deciso di farlo per iscritto in modo da rendere la propria posizione più chiara possibile, altre aziende avranno magari debiti da onorare o amicizie personali da non deludere e molto probabilmente non potranno fare le stesse orecchie da mercante.
D'altronde impieghi pubblici o posti privati, purchè si possa manovrare, fan gola a tutti. E poi non si dica che non ci sono le pari opportunità.

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