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Il racconto di guerra è un mestiere da uomini: tutte le donne inviate che hanno sfidato lo stereotipo comune

Inutile dire quanto il giornalismo sia cosa da maschi e ancora di più quanto la guerra sia affare di uomini. Essere donna, ieri e non meno oggi, è cosa difficile. “Qualcuna” diceva che fosse un’avventura, una sfida, una di quelle che richiede coraggio e aggiungerei sangue freddo. Un mestiere affascinante, perché ammettiamolo, spesso essere donna lo è. Un mestiere mal pagato, pesante, in nero. Siamo noi stesse ad autotassarci per gli errori commessi e gli altri a firmarci assegni in bianco per ogni sciocchezza o dimenticanza. Anche i mestieri, quelli veri, quelli che non dovrebbero dipendere dal genere sono spesso e volentieri cosa da uomini. Il giornalismo, e soprattutto l’inviato di guerra, è uno di questi.

Oggi, per fortuna (lasciatemelo dire), sentiamo spesso parlare di inviate di guerra, le vediamo in televisione, ne leggiamo i reportage e le storie, attraverso video, pagine di giornali, blog e libri. Clare Hollingworth, scomparsa questo 10 gennaio all’età di 105 anni, come mestiere scelse il racconto della guerra. Ѐ ricordata come la donna che fece lo scoop del secolo, annunciando per prima, nel 1939, l’invasione tedesca in Polonia. Al tempo essere giornalista era già un miracolo e fare uno scoop del genere una vera e propria benedizione dal cielo. Eppure l’inviata del Daily Telegraph, che era solita dormire con le scarpe per essere pronta all’azione, trasformò quella che molti chiamarono fortuna nel simbolo di costanza e duro lavoro. La Hollingworth non fu un’eccezione, strano a dirsi, ma molte sono state e sono le donne inviate di guerra. Già nel Rinascimento emergono i primi nomi, che aumentano nella Prima e poi nella Seconda Guerra Mondiale.

Colette, la scrittrice francese che nel 1914 accompagnò il marito a Verdun raccontando il fenomeno, allora sconosciuto, delle spose al fronte costrette a vivere nascoste per la paura di essere rimandate a casa. Elizabeth Jane Cochran, con lo pseudonimo di Nellie Bly, fu una delle penne più coraggiose e testarde firmando inchieste (spesso sotto copertura) e inviando tra il 1914-15 diversi articoli dal fronte serbo. Poi Edith Wharton (prima a vincere il premio Pulitzer) impegnata a mandare reportage dal fronte francese e Peggi Hull, la prima corrispondente di guerra che nel 1918 venne riconosciuta dal governo statunitense. Alice Schalek l’inviata sul fronte austriaco durante la Grande Guerra e Mary Roberts Rinehart corrispondente sul fronte belga e francese.

Ce ne sono altri di nomi che raccontarono la guerra tramite autobiografie e quella produzione letteraria che sembrava troppo audace per essere scritta da una donna. Più recente la firma di Oriana Fallaci, la prima corrispondente italiana che con piglio cinico e dissacrante raccontò la guerra. Una scrittura di pancia per l’emotività e di testa per le idee ben dichiarate.

Queste ed altre donne, di cui poco si parla, distrussero quel luogo comune che voleva il giornalista e l’inviato di guerra come un mestiere da uomini. Apostrofate come pazze fecero della penna l’arma migliore per far sentire la propria voce e per intraprendere un lavoro lontano da quel concetto di donna, a cui si fa ancora riferimento. Grandi professioniste oggi continuano l’impresa iniziata tanto tempo fa, sdoganando del tutto quella cultura maschilista legata ad alcuni mestieri in particolare. Il racconto di guerra è cosa da donne, la storia lo conferma.

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