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Il processo Thyssen: la dignità della giustizia

 

 

 

Il primo rilievo mediatico percepibile dalle notizie relative alla sentenza della Corte di Assise di Torino sul caso Thyssen è quello che si coglie dai commenti. 

Prima ancora di ogni profilo processuale e sostanziale è da segnalare la reazione dei soggetti “interessati” .

Il Dott. Guariniello, rappresentante dell’accusa, ha immediatamente precisato che una “sentenza di condanna non è una vittoria” commentando, quindi, il significato tecnico giuridico della decisione e la rilevanza del nuovo orientamento sul tema della sicurezza nei luoghi di lavoro.

La difesa, rappresentata dall’Avv. Zaccone, ha dichiarato di prendere atto della decisione, di non condividerla e di essere intenzione degli imputati proporre appello. Alla inopportuna, se non provocatoria, domanda dei giornalisti circa la natura politica della sentenza, l’avvocato ha chiarito di non ritenere affatto la decisione qualificabile come politica. Sul punto ha affermato “E’ una sentenza che inaugura una nuova interpretazione che ci auguriamo non venga confermata dai Giudici di Appello”.

I Giudici, invece, non hanno rilasciato dichiarazioni. Per loro, evidentemente, parlerà la motivazione.

La dignità e la compostezza delle reazioni non stupiscono, certo, l’ambiente giudiziario torinese. Per la magistratura e l’avvocatura del capoluogo piemontese è testimone una lunga storia di autonomia, indipendenza e correttezza nei ruoli e nella professionalità. Certamente con problemi antichi e contingenti, errori e problemi. Non tutto e soprattutto non tutti sono omologabili all’interno di un efficienza generale. La disfunzione è fisiologica in ogni sistema: ma nessun conto è mai stato governato al di fuori del proprio ambito ed in assenza di regole

Si tratta di una “lezione” fondamentale per coloro che in questo periodo – strumentalmente e per proprio interesse – utilizzano la giustizia e ciascuna delle loro componenti per scopi ed interessi estranei alla stessa giustizia e drammaticamente funzionali ad esigenze di bandiera (indipendentemente dallo sventolio: sia esso verso destra o sinistra).

Questo esempio consente di pensare serenamente alla decisione, commentarla ed analizzarla.

Molto di più potrà essere detto leggendo la motivazione, ma fin da subito sono ipotizzabili alcune considerazioni.

La responsabilità dell’Amministratore delegato della Thyssen è stata ritenuta sulla base del c.d. dolo eventuale. In altri termini l’imputato ha voluto (e quindi ne era pienamente consapevole) l’omissione dei presidi posti a tutela della sicurezza sul luogo di lavoro ed ha accettato il rischio che tale omissione potesse determinare, in caso di incidente o mal funzionamento degli impianti, la lesione o la morte dei dipendenti. Egli ha semplicemente confidato sulla circostanza che l’incidente non si sarebbe realizzato.

A ben vedere non si tratta di un principio “rivoluzionario” o di una “svolta epocale”, ma della precisa applicazione dei principi generali del codice penale in materia di responsabilità (il c.d. elemento soggettivo del reato).

Probabilmente non si tratta nemmeno del risultato di una ardua interpretazione delle norme o di una “esasperata” esegesi del diritto.

Molto più semplicemente sono stati valutati fatti e circostanze che conducevano proprio a quella volontà dell’imputato ed alla sua specifica accettazione del rischio poi drammaticamente realizzatosi.

Ciò che non sminuisce affatto l’importanza della sentenza, anzi ne esalta la correttezza tecnica.

Vi è infatti da chiedersi quale possa essere l’animus di quei responsabili della sicurezza che consentono ai propri dipendenti di salire sulle impalcature dei cantieri senza corde di sicurezza o caschi o altre protezioni previste dalla legge. Fino ad oggi questo genere di responsabilità era limitata a quella colposa (per intenderci il sinistro tra autovetture perché un conducente ha transitato senza dare la precedenza) per negligenza ed inosservanza di leggi.

Negli stessi termini è assai difficile pensare ad una responsabilità colposa nei confronti di quegli imprenditori (ed è difficile per loro usare tale termine) che si pongono completamente al di fuori di ogni regola assumendo senza copertura assicurativa ed operando in violazione di tutte le regole amministrative.

Vi sono aziende piccole e multinazionali che sulla sicurezza investono nel pieno rispetto delle regole e lo Stato – ma nemmeno il Mercato – possono tollerare l’esistenza di una così palese concorrenza sleale.

In realtà la sentenza dei giudici torinesi denuncia – ben lungi dall’essere questa l’intenzione dei magistrati – le gravissime lacune del legislatore. Non solo il legislatore attuale ma anche i governanti che si sono succeduti negli ultimi quaranta anni sono i veri responsabili di queste lacune.

La struttura del codice penale vigente risale al 1930. Nel corso del tempo sono state apportate alcune modifiche ai reati contro la persona (in particolare omicidio e lesioni) per cercare (con scarsi risultati) di adattarli a nuove realtà. Ma nessun intervento di rilievo ha caratterizzato i principi generali di colpevolezza come se nella realtà sociale non fosse avvenuto nessun cambiamento in questi ultimi ottanta anni.

Nel frattempo i vari governi si sono affannati a nominare Commissioni per la Riforma del Codice Penale senza che nulla sia mai approdato ad un risultato finale, salvo le non indifferenti spese che tali faraoniche attività hanno comportato per il Tesoro.

E’ francamente anacronistico pensare di poter giudicare le complesse vicende della realtà economica attuale attraverso principi e regole stabilite nel 1930.

Vi è poi da domandarsi, ritornando ai gravi fatti giudicati dalla sentenza, quale sistema di controllo e prevenzione agisce in via preventiva ed amministrativa.

Non si può pretendere che il sistema penale assuma una esclusiva funzione preventiva. Il “timore” della pena è certamente un deterrente per condotte criminali, ma a monte della commissione del reato è indispensabile un apparato di controllo e prevenzione. Ciò che presuppone, altresì, un intervento culturale.

La percezione generale di numerose condotte illecite (che vanno dalla semplice spregiudicatezza alla realizzazione di fattispecie di reato) è da una gran parte della collettività non negativa. Il responsabile, prima che scorretto o delinquente, è un furbo. Un furbo che per certi versi “cura il proprio interesse”. Ciò che i sociologi chiamano “mancanza di stigma”.

Il plauso che da molte parti è giunto alla sentenza Thyssen è, oltre che interessato, gravemente ipocrita. Solo la “lezione” di correttezza e chiarezza impartita dai magistrati e dagli avvocati ha impedito reazioni scomposte ed utilitaristiche.

Ma ciò non toglie che molti di coloro che oggi applaudono, ieri non hanno fatto ciò che era in proprio dovere per impedire i reati ed adeguatamente punire i responsabili.

Sicuramente non lo faranno nemmeno domani.

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