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Il problema del lavoro in Italia

La crisi economica non è ancora passata, e questa volta potrebbe anche non passare mai. Nel senso che il PIL si potrebbe anche riprendere, in parte, ma il mondo della produzione potrebbe rimanere in crisi, con una disoccupazione crescente.

Tra le varie ricette che via via vengono indicate ci sono gli investimenti “mirati”, che ognuno mirerebbe in maniera diversa, gli sgravi fiscali e varie modalità di incentivi, l’impegno nella ricerca e nell’innovazione. Probabilmente, si tratta solo di palliativi.

Nessuno parla mai del problema principale che affligge il mondo del lavoro e della produzione in Italia, che è la contrapposizione ostinata e insensata tra imprenditori e lavoratori.

L’Italia è rimasta uno dei pochi paesi in cui i rapporti tra lavoratori e imprenditori sono ancora improntati alla “lotta di classe” teorizzata da Marx in tempi molto diversi e non confrontabili coi nostri; un’impostazione che è stata superata e dimenticata in quasi tutti i paesi nostri concorrenti, con in testa quelli ex comunisti.

Secondo questa impostazione, il lavoro non lo crea il mercato, attraverso l’interpretazione dell’imprenditore che ne coglie e ne coltiva le opportunità. Estremizzando, il lavoro è visto invece come una specie di risorsa naturale disponibile e l’imprenditore è solo uno sfruttatore che sottrae ai lavoratori una parte dei proventi.

Questa teoria ha fatto la fortuna dei sindacati, specialmente quelli più estremisti, che hanno tenuto sempre alto il malcontento dei lavoratori per cavalcarlo a proprio vantaggio; e le conseguenze sono state devastanti.

Paradossalmente, le principali vittime di questa strumentalizzazione sono stati gli operai. Per una fabbrica gli operai sono un patrimonio prezioso di competenze e abilità difficili da sostituire, anche quando la produzione è molto automatizzata. I sindacati, invece, hanno convinto gli operai che erano dei poveretti asserviti ad un processo produttivo; degli automi privi di iniziativa e di occasioni di gratificazione.

In Giappone, invece, il grande successo ottenuto dall’industria negli anni ‘60-‘70 si era basato in larga misura sul contributo degli operai. Le aziende più avanzate incoraggiavano tutti i dipendenti a formulare suggerimenti per migliorare i prodotti e i processi produttivi (circoli di qualità); c’erano apposite “cassette dei suggerimenti” che si riempivano rapidamente di proposte in un fervore di iniziative e di spirito costruttivo. Gli operai che avevano formulato i suggerimenti più validi erano premiati; di solito, non ricevevano premi in denaro, ma erano celebrati in apposite riunioni e avevano l’onore di illustrare le loro migliori proposte ricevendo gli applausi dei dirigenti dell’azienda a dei propri colleghi.

Nello stesso periodo, in Italia, i sindacati diffidavano gli operai dal formulare qualsiasi suggerimento al “nemico” e li invitavano a fare solo il proprio dovere senza dare valore aggiunto e senza prendere alcuna iniziativa. Se qualcuno si comportava alla giapponese era bollato come ruffiano e servo dei padroni. Se un macchinario funzionava male bisognava lasciare che si rompesse, e allora il sindacato avrebbe potuto improvvisare uno sciopero di protesta e mettere il padrone alle corde.

Se il datore di lavoro chiedeva ai lavoratori qualcosa in più o semplicemente qualcosa di diverso, anche se non costava nessuna fatica in più e poteva essere gratificante, i sindacati rispondevano invariabilmente con una frase che si abbatteva come un macigno: “non gli compete!”

Questa politica ha dato un enorme potere ai sindacati, ma ha avvilito sempre di più gli operai, che si trovavano presi tra due fuochi: il datore di lavoro che pretendeva una prestazione elevata, e i sindacati che li diffidavano dal dare più del minimo.

La perdita di produttività che ne derivava era vista positivamente dai sindacati, che, in quel periodo, si battevano soprattutto per aumentare l’occupazione; infatti, costringeva la aziende ad assumere più personale. I prodotti, anche se risultavano più costosi, si vendevano ugualmente, perché i mercati erano sostanzialmente domestici e la concorrenza estera era minima.

Un altro fattore perverso era la politicizzazione dei sindacati; altra anomalia italiana. I sindacati, che erano imparentati soprattutto con la sinistra allora all’opposizione, avevano interesse a mantenere viva la tensione sociale e lo scontento dei lavoratori per portare voti di protesta ai partiti che li sostenevano ed erano a loro volta da essi sostenuti.

La politicizzazione e la ricerca del potere da parte dei sindacati hanno prodotto un altro effetto perverso: hanno fatto sì che gli stipendi degli operai perdessero terreno rispetto a quelli dei paesi vicini.

Tempo fa il segretario FIOM Landini disse candidamente che gli operai tedeschi guadagnano il doppio dei loro colleghi italiani. Non spiegò, però, che in parte ciò era colpa dei sindacati, che, piuttosto che battersi per ottenere aumenti di stipendio per tutti gli operai, preferivano chiedere “tutele” per gli assenteisti e per i lavoratori meno validi che marciavano sul filo del contratto. E che, allo stesso tempo, chiedevano normative che aumentassero il proprio potere; come il famoso “Statuto dei lavoratori” che sarebbe più giusto chiamare “Statuto dei sindacati”, perché tutela soprattutto loro. Una legge unica al mondo, estremamente sbilanciata e penalizzante per gli imprenditori, che prevede perfino, all’articolo 28, una specie di reato di “lesa maestà”: Comportamento antisindacale.

Di conseguenza, in questo clima disperante, gli imprenditori che investivano lo facevano soprattutto per automatizzare i processi e usare meno mano d’opera possibile, o, peggio, per spostare la produzione all’estero.

Oggi i nodi vengono al pettine, e per scioglierli ci vuole tanto tempo, tanta pazienza e tanta buona fede. Peraltro, pochi ci stanno provando e solo nelle piccole imprese, a parte il “caso Marchionne” che pochi hanno capito.

Oggi, nel mondo globalizzato, le grandi aziende italiane si trovano come squadre di calcio in cui i giocatori si considerassero perennemente in lotta con l’allenatore, detestassero profondamente il presidente della squadra e non ricevessero alcun tipo di premi-partita. Sarebbe difficile vincere in queste condizioni.

Per uscire dalla crisi garantendo la conservazione dell’occupazione in Italia bisogna che sindacati e i partiti che li sostengono abbandonino la strategia delle contrapposizione; una strategia sperimentata che porta voti e potere, ma impoverisce e avvilisce gli operai e mina la competitività delle produzioni italiane.

Infatti, continuando per questa strada, forse le imprese più vitali sopravviverebbero, ma sarebbero costrette a delocalizzare la quasi totalità delle attività produttive creando una disoccupazione sempre più drammatica.

I sindacati devono recuperare il loro ruolo di rappresentanza e difesa degli interessi dei lavoratori, abbandonando discutibili e inefficaci strategie politiche che usano i lavoratori piuttosto che metterli al centro dell’interesse.

Devono imparare soprattutto a difendere gli interessi dei lavoratori non contro l’azienda, ma insieme all’azienda e contro la concorrenza, preoccupandosi sempre di mantenere l’azienda vitale e competitiva: la loro “gallina dalle uova d’oro”.

Devono consentire ai lavoratori a qualunque livello - specialmente agli operai - di esprimere la propria iniziativa personale e dare il meglio di sé per migliorare i prodotti e i processi produttivi, anziché “castrarsi per far dispetto alla moglie” (=il padrone).

Devono promuovere la motivazione dei lavoratori più meritevoli, anche attraverso prospettive di carriera e di aumenti di retribuzione ad personam e non rigidamente inquadrati e perequati dai contratti di lavoro.

Devono soprattutto convincere i lavoratori che il lavoro non è una condanna da espiare sotto gli occhi di varie tipologie di aguzzini, ma una delle attività essenziali della vita di una persona, che non dà solo mezzi di sussistenza, ma anche soddisfazioni, rapporti umani e autorealizzazione.

Se i sindacati – tutti e non solo i più illuminati – faranno questo passo, potranno pretendere che gli imprenditori facciano a loro volta un passo verso di loro, accettando, in un clima di cooperazione e rispetto reciproco, delle ragionevoli forme di partecipazione alla gestione delle aziende.

E a questo punto, se il mondo della produzione tornerà efficiente e sereno, solo allora si potrà investire e innovare, con la certezza che questi interventi andranno a favore dell’occupazione e non contro di essa.

Commenti all'articolo

  • Di daniele gabas (---.---.---.14) 3 agosto 2011 23:22

    Assolutamente d’accordo con te Luigi,i sindacati hanno contribuito non poco ad aggravare la situazione occupazionale in Italia,grazie a quell’atteggiamento che prevede dure prese di posizione,proteste continue basata sull’ostilità e non sulla cooperazione.Atteggiamento mantenuto dalla sinistra in campo politico anche oggi. Se da un lato si discute se andare in ferie o meno a causa della grave situazione economica,dall’altro si acclamano le dimissioni del premier e conseguenti elezioni. Il tutto quando sarebbe il caso di lasciare posto al buon senso,

    dimenticare le posizioni,rinunciare alle aride polemiche, fare spazio agli istinti propositivi e alla
    capacità di cooperare per il bene del paese.
    Grazie per il bell’articolo uno dei pochi che si dimentica di protestare e lagnarsi,per lasciare spazio all’analisi di un problema e provare a proporre delle soluzioni.
    Saluti Daniele 

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